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Thursday, 21 November 2024
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               Da Marcione alla critica biblica moderna 

  

      La prima constatazione dell’eterogeneità delle due parti della Bibbia, ossia di quelli che sono per noi l’Antico e il Nuovo Testamento, fu fatta già un secolo dopo la morte di Cristo. Una volta ridotto al silenzio il suo autore, per altri quindici secoli il tema rimase pressoché ignorato, tornando a far capolino all’epoca di Spinoza.

      Con questi rapidi cenni intendiamo dare almeno qualche lume sull’aspetto storico della problematica, e soprattutto chiarire la nostra posizione rispetto a quella di chi ci ha preceduto.

 

       Marcione

       Il protagonista della prima - e in assoluto  più clamorosa - contestazione della Bibbia ebraica fu un certo Marcione, nato intorno all’anno 85 e a quanto sembra figlio del vescovo di Sinope, città della provincia d’Asia (corrispondente all’odierna Turchia). Le notizie sulla sua vita sono poche ed incerte, dato il silenzio che la Chiesa si è sempre premurata di mantenere su un personaggio tanto scomodo.

      Sappiamo comunque che si recò a Roma intorno al 140, venendo accolto nella chiesa locale, e che vi morì una ventina d’anni più tardi, dopo aver suscitato polemiche accese per le sue idee rivoluzionarie, che gli costarono anche l’espulsione dalla comunità ecclesiale, a cui pure aveva donato un’enorme somma di denaro (puntualmente restituita al momento della radiazione).

       Per conoscere il pensiero di Marcione non possiamo valerci dei suoi scritti, andati completamente perduti per il deciso boicottaggio di chi avrebbe dovuto trasmetterceli copiando, o quanto meno conservando, i codici che li contenevano. Le sue tesi si possono comunque ricostruire sulla base di citazioni presenti in opere di avversari impegnati a confutarle, e soprattutto nel “Contro Marcione” dell’apologista Tertulliano.     

      Per quanto riguarda il problema che ci interessa, il suo pensiero si può sintetizzare come segue. 

      Marcione contrappone frontalmente l’Antico e il Nuovo Testamento. Nel primo egli scorge l’azione di una divinità minore, che ha creato il mondo e viene per questo chiamato “Demiurgo”. A somiglianza del suo creatore, il mondo creato è imperfetto, pieno di male; sicché questo Dio, nel tentativo di controllarlo e migliorarlo, lo sottopone a una legge spietata, mandando i flagelli e compiendo i massacri di cui l’AT rigurgita. 

      Il Dio del NT, ossia il Padre di cui ci parla Gesù, è invece buono e amoroso, un vero Dio di giustizia e di misericordia, sollecito del bene delle sue creature. Dal canto suo, Gesù stesso si sacrifica per la salvezza degli uomini.

      Siamo quindi di fronte a un vero e proprio diteismo, pur se vi è una chiara differenziazione gerarchica tra le due divinità, e pur se, a quanto sembra, il Dio veterotestamentario è visto più come creatore e dio della materia che come vero e proprio principio e incarnazione del Male quale era secondo la prospettiva manichea. 

      Coerentemente con queste sue convinzioni, Marcione identifica il cristianesimo con il NT, e propone un canone biblico comprendente esclusivamente il vangelo di Luca (non sappiamo in quale misura coincidente con quello che possediamo noi) e una decina di lettere di Paolo. 

      Come si vede, si tratta di idee molto vicine a quelle da noi esposte. Le differenze tra la posizione di Marcione e la nostra si possono raggruppare in due punti:

      1) Marcione è credente, sicché per lui Yahweh è una realtà quanto il Dio di Gesù. Egli insomma esprime il naturale rifiuto e disgusto per la violenza del Dio veterotestamentario, ma in certo senso lo valorizza sotto il profillo dialettico, facendone un oppositore del nuovo Dio.

      Noi pure vediamo in Yahweh un Dio radicalmente diverso da quello neotestamentario, ma consideriamo tutta la supposta Rivelazione nient’altro che opera di uomini. Vediamo cioè due creazioni umane opposte che entrano in conflitto, e vediamo nella Bibbia il documento di tale conflitto, anziché la testimonianza di un supposto “compimento” del Vecchio Testamento da parte del Nuovo.  

      2) L’approccio alla problematica è per ovvi motivi radicalmente diverso. Marcione ha un atteggiamento attivo, vuole riformare il canone biblico; ha l’animus di chi vive in una situazione non ancora consolidata, in una fase ancora fluida di interpretazione della Rivelazione.

      Mentre egli opera per così dire in tempo reale, noi, a posteriori, consideriamo le due religioni facendo una sorta di “fermo immagine” per confrontarle in modo obiettivo.

      Marcione non aveva ancora davanti a sé compiutamente definita la teologia cristiana. Non avrebbe quindi potuto in alcun caso fare quel che abbiam fatto noi, ossia un bilancio a freddo, una sorta di catalogo ragionato da cui, come si è visto, emergono oltre due dozzine di punti qualificanti del cristianesimo che risultano completamente assenti nella Bibbia ebraica.

      La nostra è una precisa disamina teologica compiuta per così dire dall’esterno, mentre Marcione in ogni caso non avrebbe potuto compierla che dall’interno.      

      Un bilancio oculato sarebbe stato in effetti possibile già a partire dal VI secolo, dopo i primi grandi concili; ma a quell’epoca Marcione era ormai un lontano ricordo. Accanto alle idee circa il Dio dell’AT, egli aveva infatti ferme convinzioni docetiste, e probabilmente qualche simpatia per lo gnosticismo. Ce n’era più che a sufficienza per etichettarlo come eretico.

      La scuola o setta da lui fondata sopravvisse solo fino al V secolo. Le sue opere vennero fatte sparire, e su di lui scese l’oblio. 

      Ma, paradossalmente, l’eretico Marcione rende grandi servigi all’apologetica moderna. Quando infatti capita che un “lettore ingenuo”, accostatosi alla Bibbia, scopra la violenza di linguaggio e d’azione del Dio veterostamentario, rivolgendosi quindi sconcertato a un religioso, a un biblista, a un catechista, risulta comodo poter rispondergli che la scoperta che lui pensa di aver fatto è cosa vecchia, e vecchia di quasi duemila anni. 

      Sì”, gli si dice in sostanza, “ci fu già un certo Marcione, una testa calda, che affermava ...”. In questo modo si raffredda la sua emozione, gli si fa capire che non deve pensare di aver scoperto gran che: si tratta di minestra riscaldata. Ed è come dirgli: “Conosciamo il problema, eppure vedi che restiamo assolutamente tranquilli nel sentire la denuncia di cose che a te paiono sconvolgenti; tutto è sotto controllo. Sono obiezioni vecchie e superate ”. 

      Gli si spiega insomma, con un sorriso di compatimento (che vorrebbe essere rassicurante), che la questione è già stata liquidata, non è più attuale. È, per così dire, caduta in prescrizione.       

      Marcione finisce così per diventare testimonianza storica  dell’illegittimità  e dell’inanità di ogni denuncia del carattere violento del Dio biblico. La storia l’ha condannato, si insinua, perché egli aveva colto solo un aspetto superficiale di quel Dio, lasciandosi ingannare dalle apparenze; e il fatto che la sua denuncia sia finita nel nulla, sepolta dall’oblio dei secoli, sta appunto a dimostrare l’infondatezza di simili giudizi.

      Dopodiché si può passare alla pars construens dell’intervento apologetico, spiegando che la Bibbia non nasconde nulla della miseria della condizione umana, al cui livello Dio suo malgrado deve spesso adeguarsi; che egli usa una “pedagogia graduale” per dirozzare il suo popolo; che comunque la piena rivelazione della sua bontà e misericordia si ha poi con l’annuncio di Gesù, ossia col Nuovo Testamento che “compie” l’Antico; che lo stesso Gesù ha parole violentissime per condannare il peccato; e via dicendo.

      Marcione insomma avrebbe avuto il torto di non rendersi conto che la parola di Dio “incarnata” nel libro sacro non può evitare di recar traccia del peccato degli uomini.   

      Ma, a dispetto di ogni mistificazione, la reazione del credente non prevenuto che ignaro si avventura nella scoperta dell’AT è quasi sempre la stessa: sconcerto, allarme, scandalo, talvolta indignazione.

      Potremmo parlare di un marcionismo perenne. Marcione sarà attuale anche fra diecimila anni, poiché salta fuori puntualmente ogni volta che un lettore “ingenuo” (ossia non già debitamente “catechizzato” in proposito) si imbatte nella Bibbia ebraica.

       E ogni volta l’apologeta di turno deve fingere di cadere dalle nuvole e di stracciarsi le vesti di fronte al preteso fraintendimento. 

 

      Da Spinoza al Novecento

      Dopo Marcione la questione della presenza della scrittura ebraica nel canone biblico cessa di essere d’attualità. Nei lunghi secoli del Medioevo il VT diviene campo privilegiato dell’interpretazione allegorica, in cui si cimentano, a partire da sant’Ambrogio, i migliori cervelli. In tal modo la crudezza della lettera viene in molti casi sublimata dai sovrasensi.

      La Chiesa ad ogni buon conto provvede a tenere i fedeli lontani dalla Bibbia proibendo la diffusione e la lettura autonoma del libro (si veda su questo La Bibbia nella scuola: un’occasione d’oro). E non è un mistero che le preoccupazioni maggiori le suscita proprio l’AT.

       Ma l’invenzione della stampa porta alla moltiplicazione degli esemplari, e quindi dei lettori. In particolare, nel mondo germanico proprio la Bibbia, tradotta da Lutero, diviene testo di riferimento per la nuova lingua nazionale. E il principio del libero esame propugnato dai Riformatori incoraggia la fruizione autonoma del testo in tutte le sue parti.

      In ogni caso, il fervore intellettuale caratterizzante il mondo europeo ormai uscito dal Medioevo non poteva non riportare prima o poi in primo piano la questione della “singolarità” dell’AT e della sua presenza nel canone cristiano. 

      La rimessa in discussione del rapporto tra i due testamenti è affiancata dalla nascita di quello che è stato poi chiamato “metodo storico-critico”, consistente in un’analisi del testo bilblico compiuta utilizzando unicamente gli strumenti della filologia e della storia, gli stessi impiegati per lo studio di qualsiasi testo profano. 

      Nella seconda metà del Seicento Spinoza, ebreo in conflitto con la Sinagoga, osserva l’eterogeneità - per origine e per valore - dei materiali che compongono l’AT, e afferma il principio che “la divinità della Scrittura deve constare solo dal fatto che essa insegni la vera virtù”. Non è più quindi il fatto di essere divinamente ispirata o qualunque altro “pregiudizio della Teologia” a conferire alla Scrittura il suo ruolo tra le opere dello spirito.

      S’intende  che con questi presupposti non poteva tardare la scoperta, o meglio la denuncia, del discutibile valore di tante parti della Bibbia ebraica.  

      Il Settecento, il secolo della piena fioritura dell’illuminismo, vede giganteggiare la figura di Voltaire, che ha una posizione rilevante anche per quanto riguarda il dibattito intorno al nostro tema. Pur non essendo uno specialista di studi biblici, l’autore del Dizionario filosofico, attento ai risultati delle ricerche storiche contemporanee, è tra i primi e più efficaci contestatori della dignità sacrale dell’AT.

      Tra i suoi scritti dedicati al tema, va ricordato in particolare - accanto a una decina di voci del Dizionario - il Sermone dei Cinquanta: benché si tratti di poco più che di una semplice enumerazione di “abomini” e di “assurdità” reperibili nella Scrittura del popolo ebraico, senza approfondimenti teologici, occorre ammettere che anche oggi non lascia indifferenti vedere concentrati in poche pagine tanti episodi gravemente lesivi della dignità di colui che dovrebbe essere il Dio dell’universo.  

      Accanto a quella di Voltaire non mancano di farsi sentire voci di autori professionalmente dediti allo studio della Bibbia. Ad esempio, J. S. Semler (1725-1791) scrive che, sottoposta a un esame obiettivo, la Bibbia risulta “assai disuguale”, e si chiede che cosa possano significare per gli uomini del suo tempo o “per il miglioramento degli uomini di tutti i tempi”  le storie dei Giudici, di Sansone, di Rut e della regina Ester, o il Cantico dei cantici e “l’insieme dei libri storici”.

      Scrive Umberto Neri, che ci fa da guida per questo telegrafico ragguaglio storico: “Né l’Antico né il Nuovo Testamento furono risparmiati nel riesame del canone intrapreso dalla scuola storico-critica fin dalle sue origini. Ma era inevitabile che fosse soprattutto l’Antico Testamento a farne le spese”  (La crisi biblica dell’età moderna, EDB, 1996; p. 23). 

      Nell’Ottocento, sulla scia delle opinioni di J. G. Eichhorn, prevalse la tendenza a considerare il VT come una semplice collezione di testi letterari propri della nazione ebraica. E vi fu anche chi osservò che già Paolo si era a suo tempo impegnato al massimo per tenere distinto il cristianesimo dal giudaismo, e che “non riuscì a sbarazzarsi del tutto dell’Antico Testamento solo perché ancora non disponeva degli strumenti adeguati”, cosa che gli sarebbe senz’altro possibile ai nostri giorni.

      A cavallo tra Ottocento e Novecento, un famoso studioso, H. Gunkel, non esita a definire la Genesi, al pari di tanti altri libri biblici, nient’altro che “una raccolta di saghe”, simili a quelle di Sigfrido e di Crimilde, affermando decisamente la sostanziale estraneità dell’AT al cristianesimo.

      E il suo contemporaneo A. von Harnack - protestante e tedesco, al pari di Gunkel - arriva a scrivere che “qualsiasi autorità dell’Antico Testamento nel cristianesimo è insostenibile. [...] Da ormai un secolo le chiese evangeliche lo sanno, e hanno ... il dovere ... di non lasciare più supporre in alcun modo che l’Antico Testamento sia un libro canonico” (ivi, p.24). 

      Tali opinioni, nate sul terreno di studi rigorosi negli austeri atenei teutonici, erano destinate a trovare poco dopo un clamoroso e infausto avallo in tutt’altro ambito, quello della propaganda politica nazista. Già nel 1905 in effetti lo stesso Gunkel rilevava che è frequente “incontrare uomini dal sentimento nazionale particolarmente forte, che nel loro senso d’onore ‘germanico’ e ‘ariano’ vedono nei ‘semiti’, nei ‘giudei’, la sorgente di ogni sventura del nostro popolo [...] e perciò non possono sopportare che il libro sacro dei giudei abbia tanta importanza fra i tedeschi”.

      E negli anni Trenta si arriva ad auspicare senza mezzi termini la “soluzione finale” del problema dell’Antico Testamento.

       Nel marzo del 1937, come è noto, Pio XI reagì a tali atteggiamenti nell’enciclica Mit brennender Sorge, contenente precisi riferimenti al tema della Bibbia ebraica: “Solo cecità e caparbietà possono far chiudere gli occhi davanti ai tesori di salutari insegnamenti nascosti nell’Antico Testamento. Chi quindi vuole banditi dalla Chiesa e dalla scuola la storia biblica e i saggi insegnamenti dell’Antico Testamento bestemmia la parola di Dio, bestemmia il piano di salvezza dell’Onnipotente ed erige a giudice dei piani divini un angusto e ristretto pensare umano”.

      Cristo, aggiunge il pontefice, con la sua morte redentrice “fece trovare all’Antico Testamento il suo compimento, la sua fine e la sua sublimazione nel Nuovo Testamento”. Sicché risulta indiscutibile che “i libri santi dell’Antico Testamento sono tutti parola di Dio, parte organica della sua rivelazione”. 

      Niente di nuovo quindi nella dottrina magisteriale, ufficialmente e puntigliosamente ribadita. Ma nella seconda metà del secolo le denunce dell’inconciliabiità delle due sezioni della Bibbia cristiana non sono affatto cessate. P. Kaverau, ad esempio, ha scritto che “il cristianesimo può essere preservato dallo scivolare nel settarismo d’impronta veterotestamentaria soltanto se concepisce se stesso come autonoma religione mondiale, che si è liberata delle scorie dell’Antico Testamento”.

      E ci piace concludere con una lunga citazione (sempre tratta dall’opera di U. Neri; i corsivi, salvo il primo, sono come di regola nostri) da quello che è stato forse il più autorevole biblista cattolico della seconda metà del Novecento, R. E. Brown:

      “Sarebbe salutare se riconoscessimo la necessità di pensare ai libri del Vecchio Testamento come vecchi. Essi furono scritti primariamente per i loro contemporanei, per insegnare a loro come vivere nell’amore di Dio: non furono scirtti primariamente per preparare la venuta di Gesù Cristo.

      “Precisamente per il fatto che le parti dell’Antico Testamento direttamente preparatorie del Cristo sono così poche, il tentativo di cristianizzare l’Antico Testamento ha portato o ad allegorizzarlo o a smettere di usarlo una volta constatata l’irrealizzabilità del progetto. Solo ammettendo apertamente che il valore principale dell’Antico Testamento è indipendente dal Nuovo Testamento possiamo accettare l’insieme dell’Antico Testamento nel suo senso letterale.”

      Sicché, conclude Brown, “è un’affermazione shoccante, ma vera, che, anche se il Cristo non fosse venuto, l’Antico Testamento sarebbe comunque un libro che contiene una rivelazione di Dio agli uomini” (R. E. Brown, The problems, p. 80). 

      Ecco dunque affermata decisamente l’estraneità dei due testamenti, e quindi l’autonomia di ciascuno di essi.

      È la stessa tesi sostenuta da noi; che però, oltre a portare a suo sostegno il catalogo ragionato dei tratti teologici diversificanti le due religioni, vi affianchiamo quella del conflitto tra le due sezioni della Bibbia, conflitto che tocca il suo cumine sul Calvario facendo della Bibbia stessa una sorta di monstrum.   

 

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