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Apologia del mistero, del paradosso, dello scandalo La “logica inaudita” Prima di fare qualche considerazione sulle reazioni immediate del comune lettore della Bibbia di fronte ai racconti pasquali, è opportuno parlare di un elemento che può influenzare non poco tale ricezione del messaggio evangelico. Si tratta di un tema che Messori con scelta sagace tratta diffusamente come premessa di “Dicono che è risorto”: il tema del carattere paradossale del messaggio cristiano. A dire il vero, noi abbiamo già utilizzato il concetto parlando della precedenza data alle donne nell’apprendere l’avvenuta Risurrezione e, più in generale, delle “affermazioni autolesionistiche” e di quello che abbiamo chiamato il “criterio dell’imbarazzo” (v. il cap. “Gli appelli al buon senso”). In tali occasioni abbiamo contestato, in nome della suddetta paradossalità, la pretesa di attribuire un particolare valore di “prova” della Risurrezione a circostanze che, proprio in una prospettiva cristiana, dovrebbero considerarsi “di routine”. Ora vogliamo aggiungere qualche parola per denunciare l’abuso che l’apologetica e la teologia fanno di alcune categorie concettuali. Messori, come si è detto, affronta l’argomento all’inizio del suo libro. Parlando della grottesca situazione che si ha nei luoghi santi, dove i seguaci delle varie confessioni cristiane convivono guardandosi in cagnesco, al limite della rissa, egli afferma di vedere in ciò una manifestazione della paradossalità del cristianesimo. E sviluppando il concetto giunge a presentare le sue considerazioni come “avvisi ai naviganti”, ossia ai suoi lettori, “prima di intraprendere l’esplorazione dei racconti pasquali delle Scritture”, in cui essi troveranno, scrive, “luci ed ombre”, ossia “buone ragioni per credere” ma anche “spunti per dubbi”. In tal modo, sapendo che molti dei suoi argomenti risulteranno debolissimi, per non dire inconsistenti, egli mette le mani avanti, dichiarando che anche i dubbi che resteranno saranno una prova del meraviglioso progetto di Dio, il quale vuole rivelarsi velandosi, così che vi sia sempre “abbastanza luce per credere”, accanto però a “sufficienti ombre per dubitare”, secondo l’impareggiabile formula di Pascal. Ora, va detto chiaramente che un’impostazione del genere, ancorché in perfetta sintonia con la prassi collaudata della teologia e della catechesi, è prettamente mistificatoria. Mediante un’orgia di termini come mistero, paradosso, scandalo e i relativi derivati aggettivali e avverbiali, si pretende di accreditare una nuova logica, la “logica cristiana”; quella logica che, sappiamo, secondo le formule paoline è scandalo per i giudei e follia per i pagani; quella logica legittimata dal Dio che “ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti e ciò che nel mondo è debole per confondere i forti”. Una logica che orgogliosamente viene etichettata come “inaudita” e in nome della quale si rivendica praticamente il diritto di sragionare. Sragionare ogni volta che torna comodo, s’intende. Di regola infatti si impiega la logica ordinaria, quella della “ragione”, ossia quella logica di cui, si afferma, vanno orgogliosi i “razionalisti” (e si parla di una “superficialità razionalista” che appanna la visione): potremmo chiamarla la logica secondo cui due più due fa quattro. Ma quando ci si vede ridotti in un cul de sac, si sfodera improvvisamente la logica del due più due uguale a cinque, e si sbaraglia l’avversario. Il quale non può opporre alcuna difesa, in quanto egli non ha diritto all’uso di questa logica, che è per così dire brevettata, ovvero concessa in uso esclusivo al credente (ossia, in pratica, all’apologeta), il quale la possiede, si può ben dire, per diritto divino. È infatti la logica di Dio, il cui agire è essenzialmente imperscrutabile. S’intende perciò che chi la utilizza, lungi dal vergognarsi per essere costretto a un ripiego, ne sbandiera orgogliosamente la superiorità. Sicché duellare con chi può disporre a suo piacimento di questa “logica inaudita” è come disputare una partita di calcio contro un avversario che, quando la palla sta per entrare nelle sua rete, fa scattare una modifica del regolamento in virtù della quale le reti segnate in quella porta non sono valide. Contro un simile avversario si potrà al massimo impattare: vincere, mai. All’abituale logica della non contraddizione viene contrapposta la logica della contraddizione, del “credo quia absurdum”. Grazie a ciò, il meccanismo fondamentale di “spiegazione” da parte dell’apologetica risulta essere il seguente: o x è accaduto a causa di y o è accaduto nonostante y; tra le due soluzioni naturalmente si sceglie di volta in volta quella più conforme a quanto suggerisce (o impone) la fede, ossia il principio dell’ “analogia fidei”. Messori è coerente nell’applicare tale principio alla storia: la battaglia di Hattin, in cui i mussulmani strapparono definitivamente ai crociati i luoghi santi, non fu, dice, una sconfitta del Dio cristiano, il quale semplicemente permise che ciò accadesse per suoi imperscrutabili disegni; mentre la stessa “scusante” non può invocare Allah per la sconfitta di Lepanto, in quanto egli non può disporre della “logica cristiana”: la sua fu una vera sconfitta, senza mezzi termini e senza attenuanti. Analogamente, “altre religioni diverse dalla cristiana potranno essere messe in difficoltà da comportamenti deplorevoli dei loro fedeli: perché il loro onnipotente Dio […] non interviene ad impedire ogni azione difforme dai suoi precetti? Non così per la fede che crede in un Dio dalla povera nascita a Betlemme, dall’anonima vita a Nazaret, dalla ignominiosa morte e dalla nascosta risurrezione a Gerusalemme. Anzi, proprio nella mediocrità, se non nella indegnità, dei cristiani, risplende l’unicum di una immagine di Dio che non ha voluto fare da solo, che si è affidato agli uomini, che salvaguarda la loro libertà al punto da provocare condanna e sdegno da parte di altri uomini” (p. 19). Sicché, se i cristiani si comportano bene, ciò sarà segno della loro fedeltà ai precetti evangelici, e quindi prova indiretta dell’esistenza e della bontà del loro Dio; se invece si comportano male, … idem: tutto ridonda ad maiorem Dei gloriam. Insomma, quando la fede trionfa diremo che Christus vincit, Christus regnat; quando appare perdente diremo che ciò avviene per la kénosi, lo “svuotamento”, la spogliazione che il Cristo si è autoimposto, ad immagine del Servo sofferente di Yahweh. E quello che può apparire insipienza o impotenza divina viene tranquillamente etichettato come “scandalo”. Viene cioè posto in relazione non alla sua obiettiva origine e natura, ma all’effetto che produce sui non credenti (e talora sui credenti stessi). Paradossalmente, poi, è il caso di dirlo, Messori applica la logica della contraddizione solo a posteriori, in sede cioè di interpretazione degli eventi storici, mentre non la applica proprio dove si dovrebbe applicarla, cioè nei casi in cui risulta evidente che tale logica ha ispirato il comportamento dei protagonisti, miranti appunto a provocare, a produrre scandalo sui benpensanti abituati a ragionare con la logica ordinaria. Sicché, come abbiamo visto, pretende di accreditare come segno di attendibilità storica quelle affermazioni autolesionistiche che in realtà, lungi dall’essere ammissioni sofferte, sono espressioni della logica della stultitia orgogliosamente esibita. Procedimenti dialettici del genere sono all’origine di buona parte del patrimonio dogmatico cristiano, e di quello specificamente cattolico in particolare. La teologia fa notoriamente ricorso al “mistero” ogni volta che si trova in difficoltà dovendo giustificare qualche principio che ripugna alla logica “umana”, quale è ad esempio la trasmissione “per propagazione” del peccato originale (v. il § 404 del “Catechismo della Chiesa cattolica”). E le due diverse logiche sono alla base di due criteri teologici opposti largamente impiegati: da un lato l’ “argomento di convenienza” - pilastro primo su cui poggia il dogma dell’Immacolata concezione -, che risponde a una logica puramente umana, in base alla quale riteniamo che Dio abbia fatto quello che a noi pare ragionevole facesse (ossia quel che noi avremmo fatto se fossimo stati al suo posto); dall’altro il criterio dell’imperscrutabilità dell’agire divino, in virtù del quale si ammonisce che i pensieri del Signore non sono i nostri pensieri e le sue vie non sono le nostre vie [cfr. Is 55, 8]. Alternando opportunamente i due criteri si può “dimostrare” tutto quel che si vuole, o quasi. È uno sfacciato giocare su due tavoli, ufficialmente legittimato anche dalla fortunata formula, non per nulla tanto cara a Messori, dell’et-et, per cui il cristianesimo comprende e concilia mirabilmente termini che in altre religioni e culture si trovano posti in alternativa: Dio uno e trino, Gesù vero Dio e vero uomo, fede e opere, ecc. Le applicazioni pratiche di questi princìpi sono numerose. Così, ad esempio, il credente può tranquillamente affermare che la croce è grazia, che la sofferenza è gioia (anche Messori accenna alla “misteriosa fecondità della sofferenza”). Egli può ritenersi certo che le sue preghiere di supplica vengono sempre accolte; se non che, solo in alcuni (rari) casi vengono accolte secondo la sua stessa logica, ossia con l’esaudimento delle sue esplicite richieste; negli altri casi invece secondo la logica di Dio, che sa qual è il vero interesse dell’orante, al quale non resta che cercar di capire in che modo sia stato esaudito, e magari lo scoprirà solo nell’altra vita. È strano come non si veda che da una simile impostazione deriva una banalizzazione totale del divenire storico: tutto risulta accadere esattamente come se Dio non esistesse. Ipotesi, questa della non esistenza di Dio, che alla fine risulta di gran lunga pìù “economica” per spiegare quel che si vorrebbe “spiegare” saltabeccando di continuo tra l’infinita gloria dell’Onnipotente e la suprema umiliazione del Crocifisso. E quando si legge che a partire dalla Risurrezione pasquale “la storia cristiana sarà contrassegnata, tutta, da un intreccio di chiarezza e di miseria, di successo e di disfatta, di progressi e di ritirate, di segni divini e di silenzi del Cielo”; il primo spontaneo commento non può essere se non la scontata osservazione che questo vale per tutte le religioni, per tutte le culture, per tutti i popoli. Il senso del nostro lavoro Resta il fatto che il secondo capitolo del libro di Messori costituisce una sorta di manifesto dell’apologetica, di cui i capitoli successivi sono un esempio di applicazione. Sicché ci viene spontaneo chiederci: poiché l’apologetica, in base ai principi che afferma, in base alle “regole del gioco” che stabilisce, è per definizione invincibile, abbiamo sprecato il nostro tempo cercando di controbattere puntualmente le sue argomentazioni? Abbiamo fatto i don Chisciotte, cercando il punto debole di tesi predisposte da chi programmaticamente usa proprio ciò che è debole per confondere i forti? Quando abbiamo respinto la pretesa di addossare l’onere della prova ai negatori delle apparizioni; quando abbiamo denunciato il fatto di appellarsi alla verosimiglianza e al buon senso proprio mentre le regole della verosimiglianza e del buon senso vengono violate ad ogni passo; quando per pagine e pagine abbiamo fatto questo, in fondo non abbiam tenuto conto del fatto che l’apologetica impone agli avversari di usare la logica “corrente” dei comuni mortali, riservando però a sé il diritto di commutare su quella “inaudita” del cristianesimo ogniqualvolta si trovi in difficoltà. Ma, anche qualora volessimo abbandonarci allo sconforto, vi è almeno una considerazione che ci rassicura, suggerendoci che non abbiamo lavorato invano. È il fatto che l’autore, snocciolando nel corso del libro i suoi argomenti, è ricorso sistematicamente all’occultamento della verità omettendo di citare i versetti scomodi o citandoli in modo tendenzioso. Non si è fidato cioè del formidabile privilegio di etichettare l’apparente insipienza della regìa divina come prova scandalosa, paradossale, di una più segreta misteriosa sapienza. Ha preferito non presentare al lettore certi collegamenti strani, certe affermazioni imbarazzanti, temendo evidentemente che il lettore non restasse convinto, e tanto meno edificato. Non abbiamo sbagliato dunque noi a mettere, dove era opportuno, il dito nella piaga, mostrando le magagne nascoste della sistemazione apologetica di Messori. La nostra logica Per maggiore chiarezza, vogliamo qui ricordare ed esplicitare formalmente alcuni dei princìpi che ci hanno guidato nella critica delle argomentazioni dell’apologetica pasquale. Sono corollari di assiomi della logica ordinaria, quella banale logica della non contraddizione che ci guida nella vita di ogni giorno e che il comune lettore della Bibbia, il “semplice” cui la Rivelazione è destinata, ha il pieno diritto di usare accostandosi al testo sacro. a) Abbiamo contestato la tesi del carattere inevitabilmente soggettivo di qualsiasi ricostruzione storica. Scrive Messori che l’ ‘oggettività’ non esiste da nessuna parte: “è uno dei miti della credulità [sic] illuminista” (PSPP, 12). Già; però si deve ammettere che la menzogna esiste; ed è facile dimostrare che nei vangeli si incontra spesso (sotto forma di contraddizione). E non si può gabellare la menzogna per soggettività. E ribadiamo che non rientrano nell’ambito della soggettività i dati, ossia le coordinate di tempo e di luogo, nonché le informazioni di carattere numerico o riguardanti proprietà fisiche di cose e persone, ossia tutto ciò che costituisce il “protocollo” di un evento. b) Abbiamo tenuto fermo al principio che due proposizioni contrarie non possono essere entrambe vere, mentre possono essere entrambe false. Quando dunque due testi evangelici ci forniscono due informazioni, o due ricostruzioni di un medesimo evento, tra loro incompatibili, almeno una di esse è sicuramente falsa, senza che da ciò si possa automaticamente dedurre la verità dell’altra. È evidente che quando si moltiplicano i casi in cui ci si trova nella necessità di dichiarare falsa una delle due affermazioni contrastanti, sorge la tentazione di negare fiducia anche all’altra. Perché la notizia rivelatasi falsa squalifica il testimone, così come il testimone dimostratosi inattendibile scredita la notizia che porta. c) Abbiamo pertanto considerato infondata la pretesa del Magistero di affermare l’inerranza del Vangelo considerato nella sua globalità. Il documento conciliare sulla Rivelazione, la costituzione “Dei Verbum”, afferma che gli evengelisti scrissero sempre “in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità”. Si ha la netta impressione di trovarsi di fronte a un lapsus freudiano. La menzione della sincerità accanto alla verità è infatti del tutto superflua: la sincerità non è condizione sufficiente della veridicità di quel che si afferma, ma ne è condizione necessaria. Può cioè esservi sincerità senza verità, ma non verità senza sincerità. Sicché, in presenza dell’asserita verità, è fuori luogo precisare che ad essa è unita la sincerità. Se dunque quest’ultima viene menzionata espressamente, è perché si ritiene che essa in alcuni casi possa sussistere anche in assenza della verità: gli evangelisti insomma, si vuol dire, riferiscono sempre cose vere, e in ogni caso sono sinceri. Il che equivale a dire che, se occasionalmente non dicono il vero, sono comunque in buona fede. Il richiamo alla sincerità appare un salvagente lanciato agli agiografi per quei casi in cui è innegabile (se non altro per la contraddizione reciproca) che non dicono – o non dicono tutti – la verità.
d) Possiamo dunque concludere che motivi di pura logica (la normale logica ordinaria, ripetiamo, di ascendenza aristotelica) danno l’assoluta certezza che i Vangeli, considerati nel loro insieme, contengono un gran numero di asserzioni false, buona parte delle quali si trova concentrata proprio nei racconti della Risurrezione.
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