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Sommario: - Fides qua e fides quae - L’intima natura della fede - Motivazioni della fede. L’imprinting - La fede e le fedi: ratio una, fides multae - L’intima natura della ragione - Il contrasto e l’asserita gerarchia tra fede e ragione Prima di toccare temi più strettamente legati ai documenti degli ultimi due papi, ci pare opportuno fornire, a scopo propedeutico, qualche precisazione e chiarificazione sul problema dei rapporti tra ragione e fede. Si tratta in gran parte di concetti elementari, che però spesso l’apologetica distorce o addirittura stravolge. Fides qua e fides quae In teologia, quando si parla di fede, si possono intendere due cose diverse: la fides qua creditur, ossia la fede in virtù della quale si crede, oppure la fides quae creditur, ossia la fede che viene creduta. Ce ne dà un’autorevole conferma ad esempio il sito di mons. Caffarra, vescovo di Bologna e già vescovo di Ferrara, che usa quasi le nostre stesse parole: “Nel vocabolario cristiano il termine "fede" può significare due realtà distinte: o "ciò che" la Rivelazione cristiana svela all’uomo (= fides quae creditur) oppure "ciò mediante cui" l’uomo dà il suo assenso a ciò che la Rivelazione svela (= fides qua creditur). Fra i due significati esiste un rapporto di dipendenza dell’uno dall’altro”. Il primo a individuare la distinzione è stato sant’Agostino: aliud sunt ea quae creduntur, aliud fides qua creduntur (De Trinitate 13, 2, 5). Le due espressioni vengono abitualmente sintetizzate nelle formule fides qua e fides quae. È chiaro quindi che siamo di fronte a due entità concettuali che non si collocano sullo stesso piano: in un caso abbiamo un atteggiamento dello spirito, ossia la disponibilità a credere, nell’altro un complesso di affermazioni dogmatiche, ossia le “verità” che cosituiscono il cosiddetto “deposito della fede”. Detto questo, occorre putroppo segnalare che anche con la fides qua e la fides quae accade quel che si verifica in tanti altri casi nella teologia cristiana: i due significati vengono spesso arbitrariamente scambiati - spesso all’interno della medesima frase -, contravvenendo alla regola elementare di ogni procedimento dialettico, quella dell’univocità dei termini impiegati nel corso dell’argomentazione. Gran parte dei discorsi intorno alla natura di fede e ragione e ai loro mutui rapporti sono pertanto inficiati dall’ambivalenza del primo termine, surrettiziamente inteso ora come fides quae ora come fides qua. Ad esempio, è ingenuo - ovvero mistificatorio - dire che la fede non contrasta con la ragione: alla radice vi è una confusione tra fides quae e fides qua. La prima infatti di per sé può anche non contrastare con la ragione: molte verità di fede possono essere compatibili con le esigenze della razionalità. Ma la medesima cosa non si può dire per la fides qua, che ne è anzi esattamente l’opposto: è la negazione della ragione stessa considerata nella sua natura di facoltà euristica, ossia quale strumento di ricerca e accertamento della verità. Analoga confusione l’abbiamo quando si dice che la fede è una grande luce ma è oscura. Per evitare la banale “contraddizione in termini” e vedere nella frase un ossimoro (quale è ad esempio l’espressione “silenzio eloquente”), occorre dare successivamente al termine “fede” i due diversi valori: la fede è una luce perché ”illumina” lo spirito, come fides qua, ed è al tempo stesso oscura in quanto complesso di misteri, ossia come fides quae. Da quanto si è detto, appare chiaro che la fides qua non fa riferimento ad alcun contenuto, ma è semplicemente un atteggiamento, una modalità di azione dello spirito anelante alla verità, per cui in via di principio può portare a contenuti di fede assai diversi. La fides quae, al contrario, lungi dal prescindere dai contenuti, ne è la piena e convinta riaffermazione. Mentre pertanto la prima espressione non ha necessariamente connotazione positiva, essendo per così dire “vuota”, indeterminata, l’opposto accade per la fides quae, che è sempre intesa positivamente (purché ci si riferisca al messaggio cristiano, s’intende). Questo fa sì che molti discorsi teologici, volti inizialmente a chiarire la natura della fede in quanto tale, a prescindere cioè dai suoi contenuti, finiscano per fare di fatto riferimento, in virtù del surrettizio scambio di fides qua e fides quae, ai contenuti (ovviamente presentati come positivi) della dottina cristiano-cattolica. Non appena si ritiene di aver ottenuto un certo consenso di principio sulla legittimità della fides qua da affiancare alla ratio, subito se ne approfitta per cercare di estenderlo, fraudolentemente, alla fides quae. Non solo. Quel che accade con la fides, accade assai spesso con altre entità concettuali di cui si nutre il linguaggio teologico e che vengono designate con termini equivocamente impiegati ora in senso del tutto indeterminato, ora con un implicito riferimento ai contenuti del cristianesimo. Ne diamo qualche esempio. Inizieremo proprio con la ratio. Pure in questo caso la valutazione positiva è esclusivamente riferita, anche quando non se ne faccia menzione esplicita, a quella che si ama definire “recta ratio”. La ragione, insomma, in tanto è buona in quanto porta alla proclamazione delle verità della fede cristiana. Quel che conta non è il suo valore autonomo di strumento per attingere la verità, ma la sua attitudine a rivelare all’uomo il Dio di Abramo e di Gesù Cristo. Per analogia con il caso della fides, noi perciò parleremo occasionalmente di una fantomatica ratio quae abusivamente collocata al posto di una ratio qua che rappresenta invece la vera essenza della ragione. E quel che vale per la ragione, vale ovviamente per la filosofia, che nella prospettiva dell’apologetica dovrebbe valersi appunto della ragione per mostrare la suprema eccellenza della proposta cristiana. Non si perde quindi occasione di precisare che va presa in considerazione solo la ”buona – ovvero ‘sana’ - filosofia”. Una filosofia che potremmo definire “cristocompatibile”, insomma; il che porta alla bocciatura, tra l’altro, di tutte quelle filosofie di cui ci fa un elenco Giovanni Paolo II nella sua enciclica: eclettismo, storicismo, modernismo, scientismo, pragmatismo, nichilismo, cui va aggiunta ovviamente ogni forma di materialismo. In sostanza, anche qui abbiamo un’indebita enfatizzazione dei contenuti che si sovrappone all’esame dell’attività dello spirito considerata in sé, nel suo statuto epistemologico. Possiamo quindi parlare di una sorta di philosophia quae (in pratica, l’opera filosofica, come quando parliamo di filosofia aristotelica o di filosofia kantiana) che si confonde con la philosophia qua, che altro non è se non la libera ricerca del vero. Altro campo in cui ha modo di esplicarsi la sotterranea e mistificatoria dinamica del qua e del quae è quello della libertas, la libertà di cui l’uomo è stato dotato da Dio. “Libertà”, secondo il De Mauro, è “la condizione di chi è libero”, la “facoltà dell’uomo di agire e di pensare in piena autonomia”, ossia, diciamo noi, la possibilità di operare delle scelte. Per valutare l’effettivo grado di libertà goduta dall’individuo dovrebbe pertanto essere irrilevante il contenuto delle scelte compiute; a condizione, ovviamente, che il soggetto agisca in condizioni di piena lucidità mentale, non sotto l’influsso di psicofarmaci, droghe o altri fattori che creano “dipendenza”, configurando una condizione patologica. Ma di fatto l’apologetica considera vera libertà solo quella che, in quanto appetitus boni, porta a scegliere incondizionatamente il Dio cristiano e la verità cattolica. Anche in questo caso, dunque, possiamo parlare, per analogia, di una libertas quae (ossia con contenuti predeterminati) contrapposta alla pura e semplice libertas - talora spregiativamente etichettata come libertas electionis - grazie alla quale (“qua”) l’uomo compie le sue scelte, quali che siano. L’intima natura della fede Quando si parla di fede e di ragione, contrapponendole in vario modo, ma su un piano sostanzialmente paritario, per studiarne analogie e differenze, si commette un errore pregiudiziale. L’accoppiamento dei due termini, che ritroviamo tra l’altro nel titolo della fortunata enciclica di Giovanni Paolo II, suggerisce infatti che si tratti di due strumenti a disposizione dello spirito umano per raggiungere la verità. La realtà è ben diversa. Come già si è accennato, la fede, anche come fides qua, non è uno strumento di acquisizione di conoscenza, quale è invece la ragione: è solo un atteggiamento dello spirito, che dà la propria ferma adesione a contenuti di pensiero non razionalmente né sperimentalmente verificati. La fede è accettazione (in via di principio a scatola chiusa) di contenuti che vengono presupposti veri. Questo naturalmente non esclude che tali contenuti (costituenti la fides quae) possano poi (nella fase cosiddetta della fides quaerens intellectum, la fede che per comprendere si appella all’intelletto) risultare più o meno compatibili con le esigenze della ragione e quindi apparire come possibili verità. Rimane in ogni caso mistificatorio presentare la fede in parallelo con la ragione (come suggerisce, oltre al titolo stesso dell’enciclica, il paragone delle due ali con il quale questa si apre), poiché non si tratta, contrariamente a quanto si tende a pensare, di due diverse forme di conoscenza sostanzialmente complementari. La fede, insomma, a differenza della ragione, non porta a scoprire nuove verità, ma fa accettare pregiudizialmente presunte verità che le vengono presentate come tali. Sotto il profilo rigorosamente epistemico non è possibile tracciare un confine oggettivo tra “fede”, “credenza” e “credulità”. Vi è solo una differenza di registro, ossia una connotazione positiva per “fede” (termine riferito a contenuti di grande portata spirituale, storica e culturale, interessanti anche centinaia di milioni di persone) e negativa per “credulità”, che implica ingenuità grossolana, e di regola si usa con riferimento a singoli individui o a piccoli gruppi. Non di rado l’apologetica sottolinea (lo fa anche il Papa nell’enciclica, v. §§ 31 ss.) che di fatto l’uomo, nella vita quotidiana, non potendo verificare personalmente l’enorme massa di informazioni di cui fa uso, si affida al credere. Dal che dovrebbe scaturire una valutazione positiva dell’ “assenso di fede”, contro il dispregio dei razionalisti che lo ritengono fonte di conoscenza del tutto inattendibile. Ma va detto che la pretesa analogia tra la fede religiosa e la “fede” prestata ai nostri simili nelle mille circostanze che la vita ci presenta ogni giorno è un’analogia che non regge: le due situazioni non sono assolutamente paragonabili. Nella vita quotidiana, infatti: - non sono mai in gioco cose umanamente impossibili, quale è ad esempio la risurrezione di un morto; - di regola non c’è motivo di ritenere che qualcuno voglia convertirci alla sua credenza (nelle cose di fede c’è invece sempre una motivazione in senso lato ideologica, di proselitismo); - non è vero, in genere, che si tratta di un assenso di pura fede prestato senza alcuna verifica razionale: alla base vi è quasi sempre un procedimento induttivo, ossia l’insieme delle esperienze positive fatte sino a quel momento; ci fidiamo ad esempio di una certa persona o di un’istituzione solo se non ci risulta che ci abbia mai ingannato; - la nostra adesione è comunque sempre provvisoria: la ritiriamo se ci accade di constatare che la nostra fiducia era infondata, ossia che le nostre supposizioni erano erronee (e questo è possibile perché si tratta sempre di asserzioni falsificabili, mentre non è falsificabile ad esempio l’unitrinità di Dio). Motivazioni della fede. L’imprinting Nella sua essenza, la fede è sempre un credo quod cupio o un credo quod spero, in qualche caso un credo quod timeo: credo quel che desidero o spero, al limite quel che temo. Vi è quindi in essa un’insopprimibile e determinante componente volontaristica, un atto di scelta. Scelta a sua volta dettata da una predilezione di natura in senso lato estetica: presto fede a una determinata proposta religiosa perché “mi piace” più di ogni altra, perché più di ogni altra mi appare atta a soddisfare le mie esigenze spirituali, a rispondere agli eterni interrogativi sul senso ultimo della vita e del mondo. Spesso l’apologetica si compiace di sottolineare proprio il fatto che (a suo dire, s’intende) la dottrina cristiano-cattolica è obbiettivamente superiore, e quindi “preferibile”, alle religioni concorrenti. Simili affermazioni confermano involontariamente quanto abbiamo appena detto circa la motivazione sostanzialmente “estetica” dell’adesione di fede; dall’altro contribuiscono a un’impostazione distorta della problematica religiosa. La questione di fondo infatti non è stabilire se una certa religione sia più o meno bella, ricca, profonda, umana, e via dicendo: la questione è di sapere se è vera. Non di tratta di fare un concorso - di bellezza o d’altra natura – tra le varie religioni, ma di trovare una confessione che possa realmente soddisfare il bisogno di certezze che l’uomo avverte. Questo non esclude che si possano confrontare due o più dottrine religiose valutandole secondo la ricchezza, la profondità concettuale, la coerenza … Ma la situazione è simile al caso di un uomo che cercasse di rintracciare il padre mai conosciuto: non gli interessa tanto trovare, quasi “scegliendo” tra vari potenziali candidati, una persona ricca di qualità positive, gli interessa individuare la persona giusta, ossia quell’unica che è veramente suo padre. Non intendiamo addentrarci qui in questioni di fenomenologia della religione; il nostro scopo rimane quello di mettere a fuoco alcuni aspetti della fides che la contrappongono alla ratio. Dobbiamo quindi precisare che quanto abbiamo or ora detto circa la componente volontaristica dell’atto di fede si riferisce a una modalità di acquisizione della fede stessa che, pur essendo indubbiamente all’origine dell’accettazione di ogni messaggio religioso, di fatto non è quella che si riscontra più frequentemente per i singoli individui. In effetti, l’uomo che sceglie liberamente una confessione religiosa perché conquistato dai suoi contenuti può solo essere un adulto ateo o agnostico, oppure il fedele di una certa religione che ha deciso di convertirsi ad un’altra: nella stragrande maggioranza dei casi la fede non si sceglie, si eredita passivamente dalla tradizione famigliare in virtù di un imprinting al quale poi non si sa o non si vuole reagire. In pratica, si avalla tacitamente una scelta fatta dalle generazioni precedenti. Il fatto è che la supposta verità delle religioni rivelate viene di norma inculcata nei bambini mediante un indottrinamento precoce che è a tutti gli effetti una sorta di plagio. Naturalmente l’operazione viene di regola presentata come innocua e accattivante: “si sparge la buona semente”; col sottinteso che i semi, se non subito, fruttificheranno poi, quando Dio vorrà, magari anche a cent’anni di distanza sul letto di morte. E s’intende che dove si seminano cavoli, ben difficilmente crescerà lattuga. Lo stesso Benedetto XVI ce lo ricorda con sorprendente franchezza in un’udienza del mercoledì. Parlando di san Giovanni Crisostomo, cita tra l’altro queste sue parole: “Perciò la legge di Dio deve essere fin dall’inizio impressa nell'anima "come su una tavoletta di cera" (Omelia 3,1 sul Vangelo di Giovanni): di fatto è questa l'età più importante”. Ecco, dunque: su quella tavoletta di cera costituita dall’anima e dalla mente di Joseph Ratzinger bambino fu impressa a suo tempo la legge del Dio cristiano, in versione cattolica; sicché egli ora la proclama unica verità, destinata per volere divino ad imporsi su ogni altra opinione e credenza. L’appartenenza a una determinata religione dipende dunque, almeno nove volte su dieci, da circostanze puramente accidentali. In effetti possiamo dire, per variare la metafora della tavoletta di cera, che il bambino è una spugna che assorbe i contenuti culturali del contesto sociale e familiare in cui si forma. Assimila, interiorizza i contenuti e i principi di una data confessione così come le strutture della lingua in cui impara a parlare. Il bambino norvegese portato subito dopo la nascita in Giappone e allevato da una famiglia giapponese parlerà come un giapponese; e troverà che il giapponese sia la miglior lingua del mondo, quella in cui si possono meglio esprimere i concetti e “le verità”, semplicemente perché è quella che meglio padroneggia e, soprattutto, è quella in cui pensa. Ma sarebbe assurdo che dicesse che la sua lingua è “quella vera” solo perché per lui è, senza confronti, quella in cui meglio esprime il proprio pensiero. Certo, è possibile analizzare oggettivamente le strutture, le potenzialità epressive di lingue diverse e concludere che una lingua è più ricca, o più complessa, o più duttile di un’altra; ma considerazioni del genere non inducono di regola un parlante a rinunciare alla propria lingua materna per passare ad un’altra teoricamente superiore ma da lui meno saldamente posseduta ed “amata”. In questo campo dunque il relativismo è la norma, è una legge di natura: “ad ogni uccello suo nido è bello”, dice un proverbio siciliano reso popolare dal Verga dei “Malavoglia”. E il caso della lingua – così come, si è visto, quello della religione - è molto simile. È importante osservare che anche tale modalità di acquisizione della fede (modalità che è, ripetiamo, quella di gran lunga più comune) concorre a differenziare radicalmente la fede dalla ragione: mentre la religione è storicamente e culturalmente condizionata, la ragione è una struttura antropologica propria della specie umana.
Sulla ragione pertanto l’imprinting non ha alcuna influenza: per quanto vi sforziate di educare il bambino a una razionalità distorta, cercando in pratica di insegnargli a sragionare, quando avrà l’età adeguata il teorema di Pitagora gli apparirà della stessa cristallina evidenza con cui si presenta alla mente del bambino cresciuto nell’esercizio della ragione “ortodossa”. A meno che non siate riusciti a farne un demente, s’intende; ma in questo caso il problema non riguarderebbe più la pedagogia, ma la giustizia penale e la psichiatria. La dipendenza dall’imprinting subìto nell’infanzia spiega in modo particolare i casi in cui a monte della fede sta, anziché il desiderio e la speranza, il timore, ossia i casi di credo quod timeo. L’oscuro timore di un’eterna punizione per i peccati, timore inculcato nell’animo del bambino fin dalla più tenera età, è in molti casi alla radice di una stanca “sopravvivenza” della fede ereditata dai genitori e dai nonni. La fede e le fedi: ratio una, fides multae Il fatto che la fede sia soggetta all’imprinting (al pari dei valori, come diciamo altrove, ne “Il relativismo etico. I valori”), mentre la ragione ne è del tutto indipendente, ha un corollario di grande importanza: mentre la ragione è una, senza distinzioni di cultura e di epoca, le “fedi” sono tante. Ciò costituisce un ulteriore motivo per definire incongrua ogni formula che associ la fede e la ragione collocandole su un piano paritario. Non già “fides et ratio” dovrebbe dunque suonare il titolo dell’enciclica papale, bensì “fides catholica et ratio”. Menzionare la fede senza specificazione alcuna è mistificatorio. Ovvero, diciamo che espressioni come “la ragione e la fede” dovrebbero essere sostituite da “la ragione e le fedi”; e, qualora si volesse conservare la formula “fides et ratio”, occorrerebbe precisare, dato che in latino le due forme sono uguali, che fides va inteso come un plurale. Sta di fatto che ogni discorso riguardante la fede, finché non si specifichi a quale fede ci si riferisce, vale integralmente, poniamo, anche per l’islamismo e per l’induismo. In altre parole, è assurda la pretesa dell’apologetica di parlare di “fede e ragione” come di due entità metafisiche intendendo però riferirsi automaticamente alla fede cattolica: non si tiene conto del fatto che mentre da un lato abbiamo la ragione, dall’altro abbiamo una fede, ossia una fra le tante, anche qualora si voglia considerarla la più ricca e la più prestigiosa. Volendo sottilizzare, va precisato che soggetta all’imprinting non è solo la fides quae, ossia il bagaglio dottrinale della fede: lo è anche la fides qua. Benché infatti si tratti di un semplice atteggiamento dello spirito, di una pura disponibilità ad accogliere contenuti di fede (per cui si potrebbe pensare a una sorta di equidistanza rispetto ai patrimoni dottrinali delle diverse religioni), di fatto la fides qua si traduce in una disponibilità ad accettare i contenuti di fede proposti da un certo ambiente (di regola il gruppo famigliare); di conseguenza, anche i contenuti dottrinali risultano deterministicamente definiti. Questo spiega come una fides qua teoricamente indifferenziata porti ad esiti concreti, in termini di fides quae, tra loro diversissimi. La ragione, al contrario, è realmente universale: non richiede e non accetta nessuna qualificazione storica o geografica o etnica, è una per tutte le culture e per tutti i singoli individui di ciascuna cultura. L’intima natura della ragione Dopo i numerosi accenni indiretti fatti parlando della fides quae e soprattutto della ratio quae, è ora opportuno descrivere in modo più appropriato l’intima natura della ragione. In termini concreti, potremmo definirla la facoltà della nostra mente (una sorta di software mentale) che, a condizione che si parta da premesse vere, permette di giungere a conclusioni vere. Accanto alla suddetta condizione, è pure necessario, ovviamente, che il “ragionamento”, ossia lo sviluppo dell’argomentazione, sia “corretto”, ossia condotto nel pieno rispetto di quelle regole che la scienza della logica ha individuato e classificato nel corso di venticinque secoli. Se da un lato ciascuna di queste due condizioni è necessaria, la coppia considerata nel suo insieme è anche sufficiente a garantire la certezza delle conclusioni. È comunque importante che tutte le premesse utilizzate nel procedimento dialettico siano esplicitate, affinché si possa procedere all’accertamento del loro valore di verità. Spesso infatti le conclusioni sono inficiate dalla presenza di premesse occulte, surrettiziamente impiegate. È quasi superfluo precisare che nella sua forma più pura e rigorosa la ragione trova sistematico impiego nell’ambito della deduzione logico-matematica. Frutto di ragionamenti rigorosi sono poi le regole che disciplinano il “metodo sperimentale”, che, associato al calcolo matematico, assicura un altissimo grado di certezza alle conclusioni ottenute nel campo delle scienze naturali. È ovvio che tale definizione della ragione apparirà a molti fortemente riduttiva, poiché sembra trascurare l’innegabile contributo che la ragione stessa fornisce all’elaborazione di concetti in tutti i rami del sapere. Ma dobbiamo ribadire con fermezza che l’universalità e la necessità delle conclusioni a cui la mente umana perviene sono garantite solo dalla concomitanza delle condizioni sopra citate (verità di tutte le premesse e rigorosa correttezza del procedimento), che al di fuori del campo matematico e scientifico di regola non sono sistematicamente soddisfatte. Al di fuori di tali ambiti, quindi, i principi logici sono impiegati promiscuamente con altre “regole” che riflettono esigenze dello spirito estranee alla pura ragione. Si utilizzano quindi come premesse anche affermazioni che, anziché verità razionalmente verificate, non sono che convinzioni individuali o collettive, spesso culturalmente e storicamente condizionate. Tra queste, in particolare, i cosiddetti “valori”: frutto del sentire, della sensibilità dell’uomo, e quindi di scelte, di atti di volontà (cfr. “Il relativismo etico. I valori”). Questo fa sì che la confusione sul concetto di ragione regni sovrana in gran parte delle argomentazioni sfoggiate nelle discussioni intorno all’etica, all’origine del mondo e dell’uomo, all’esistenza di Dio e dell’anima. La ragione viene per così dire “tirata” da tutte le parti, chiamata cioè abusivamente a conferire l’avallo della propria universalità e necessità a tesi che in realtà si fondano su presupposti ideologici o religiosi ben lungi dall’essere dimostrati. L’apologetica è maestra nell’alimentare tale confusione: ricordiamo il ricorrente equivoco tra ratio qua e ratio quae, che riproduce quello ancor più frequente tra fides qua e fides quae. Esempi insigni di tale malcostume dialettico sono l’enciclica “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II e la “lectio magistralis” tenuta a Regensburg da Benedetto XVI (commentando quest’ultima, noi mettiamo a fuoco il problema nel capitolo “La filosofia di Ratisbona”). Il problema del contrasto e dell’asserita gerarchia tra fede e ragione È presupposto di ogni argomentazione apologetica la tesi che la ragione può condurci a conoscere molte cose della realtà ultima dell’uomo e del mondo (ad esempio, l’esistenza di Dio e dell’anima), guidandoci “sino alle soglie della fede”. Alla ragione viene quindi assegnato un ruolo propedeutico rispetto a quello della fede, che di quella realtà ci darebbe una visione compiuta. Ciò non è che l’applicazione concreta di un principio che si considera indiscutibile: il principio che “la fede non contrasta con la ragione, ma la supera”. Siamo qui di fronte a due affermazioni distinte: a) la fede non si pone in contrasto con la ragione; b) la fede supera la ragione. Le esamineremo distintamente per mostrare come siano entrambe infondate. A - Che la ragione non contrasti alla fede è chiaramente insostenibile in tutti i casi in cui la teologia, nello sforzo di sfuggire a un’aporia insanabile, è costretta a rifugiarsi nel “mistero”. Il mistero, come dimostriamo più diffusamente altrove, non è che l’espressione della consapevolezza, da parte della Chiesa, di non essere in grado di dar conto della propria fede, riguardo a un determinato punto di dottrina. Se ad esempio consideriamo le due proposizioni “Dio rispetta sempre fino in fondo la libertà dell’uomo” e “La volontà di Dio si realizza sempre”, vediamo che è impossibile che siano entrambe vere, poiché quando si verifica che la volontà (per definizione “libera”) dell’uomo entra in conflitto con la volontà divina, questa non può realizzarsi se non limitando quella libertà. Qualche apologeta tenta pateticamente di spiegare che in casi del genere la Chiesa, pur essendo certa della verità di entrambe le tesi, esita a pronunciarsi perché “non vede la connessione” tra di esse. In realtà, per chi vuole veramente vedere, la connessione tra le due proposizioni c’è, eccome, ed è una relazione di incompatibilità: esse sono definite dalla logica classica, secondo i casi, come contrarie (il che significa che almeno una delle due è falsa) oppure contraddittorie (per cui una è sicuramente vera e l’altra sicuramente falsa). La teologia risolve il problema ponendolo sotto il manto protettivo del mistero, occasionalmente definito non come mancanza di luce, ma, all’opposto, come un eccesso di luce che abbaglia la ragione e la sopraffà. Pietose giustificazioni per nascondere l’evidenza che il deposito della fede contiene parecchie coppie di “verità” reciprocamente incompatibili; il che equivale a dire che, intendendo con “ragione” l’insieme dei principi logici elementari, ragione e fede sono spesso in rotta di collisione. B - Esaminiamo ora la seconda delle affermazioni sopra citate: “la fede supera la ragione”. Se la fides, si argomenta, ci consente di giungere più in alto nella nostra ricerca della verità, facendoci conoscere ciò che ci trascende e che quindi poteva solo esserci rivelato da Dio stesso, la sua superiorità rispetto alla ratio appare fuori discussione, poiché superiore è il suo potere euristico. Si tratta di affermazioni prettamente mistificatorie. Tra ragione e fede è impossibile stabilire un rapporto gerarchico per il semplice fatto che, come abbiamo or ora ripetutamente affermato, si tratta di due entità non comparabili, in quanto solo la ragione è uno strumento per l’acquisizione della verità. La fede, giova ribadirlo, non è che un atteggiamento che lo spirito umano assume di fronte al problema di tale acquisizione. La fede può giungere dove vuole e gratificarci con le realtà più sublimi spaziando, senza porsi limite alcuno, per il vastissimo mondo del concepibile e anche oltre, nel regno del “mistero”. E giunge in effetti a una molteplicità di risultati (le varie fides quae) tra loro diversissimi e in gran parte contrastanti. La ragione, dal canto suo, lungi dall’ammettere con rammarico i propri limiti e inchinarsi a una pretesa superiorità della fede (come ama fantasticare l’apologetica, secondo cui la ragione in certi ámbiti “non riesce” ad attingere la verità), non si sente minimamente coinvolta in questa sorta di competizione mirante alla conoscenza di presunte realtà poste a un livello più alto. Si limita a lavorare nel raggio d’azione che le è consentito dai suoi principi (rigore del metodo deduttivo, nonché verifica sperimentale nelle scienze naturali e ovunque si rende necessario il ricorso all’induzione); e con assoluta coerenza non si occupa di ciò che non può essere indagato con tali strumenti, ossia di tutto ciò che la tradizione filosofica ascrive all’ambito della “metafisica”. Riassumendo: è petizione di principio, e dunque pretesa infondata, che la ratio arrivi fino alle soglie della fede e che poi questa la superi senza però contraddirla. Noi possiamo solo dire che la fede è estranea alla ragione, ossia esula dalla ragione, ne prescinde; che poi si preferisca immaginarla posta al di sopra o al di sotto o al suo fianco, è non solo irrilevante ma anche, in fondo, privo di senso. Quello del “superamento” è un giudizio assiologico assolutamente arbitrario. La razionalità, come già si è accennato, può essere proficuamente applicata all’interno della fides (della fides quae, s’intende), ma solo per verificarne, appunto, la coerenza interna, cioè la compatibilità dei singoli teoremi tra loro e coi postulati di partenza: non può dire nulla sulla verità di tali postulati. Tanto più poi quando, come nel caso del cristianesimo, sono i postulati di una religione che si autoproclama rivelata.
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