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Un uomo mangia il corpo di un altro uomo Sul significato dell’ingestione di carne umana a scopo non puramente nutrizionale, negli ultimi due secoli hanno scritto fiumi di parole illustri antropologi, etnologi, psicologi. Noi, nella prospettiva del “comune utente biblico” chiamato a credere nel dogma della “presenza reale” del Cristo sotto le “specie” del pane e del vino e nei suoi corollari, vogliamo sottolineare innanzitutto la fondamentale primitività della concezione che sta alla base della dottrina eucaristica (o quanto meno, come si vedrà poi, di una delle due concezioni in essa reperibili): si mangia qualcuno per acquistare – almeno in parte - le sue virtù. Analogamente, nella notte dei tempi (e in qualche regione del globo ancora in epoca assai recente) si usava mangiare il cuore del nemico vinto (ma ammirato) per acquistare il suo coraggio, o i suoi genitali per acquisirne la virilità. In particolare, nella storia delle religioni non mancano esempi di teofagia, in cui chi viene mangiato è un dio. In queste operazioni, esattamente come nell’eucarestia, il mangiante diviene simile (ovvero “si assimila”) al mangiato, al contrario di quanto avviene nel processo ordinario della nutrizione, in cui il mangiato si assimila al mangiante: in questo consiste l’assimilazione degli alimenti, che rende possibile la vita. È curioso notare che il “principio eucaristico” corrisponde nella sostanza al famoso e vituperato slogan di Feuerbach, secondo cui “l’uomo è ciò che mangia”. Naturalmente Feuerbach, nella sua prospettiva materialistica, intende riferirsi al mangiare qualcosa, e non già qualcuno. Per chi come lui considera il pensiero, con tutta la vita psichica, una sorta di secrezione del cervello, esso non costituisce, in fondo, che la trasformazione ultima delle sostanze che nella nutrizione si assimilano al corpo del mangiante: gli alimenti, appunto, che metabolizzandosi diventano muscoli, ossa, nervi, nonché sostanza cerebrale. Sicché l’intelligenza può venire considerata prodotto dell’assimilazione di certe sostanze, tra cui ad esempio il fosforo (così come la forza può essere vista come prodotto del ferro, cfr. gli spinaci di Braccio di ferro). L’analogia tra la dinamica eucaristica e quella delineata da Feuerbach è comunque innegabile. Si ha la netta impressione che la Chiesa non si sia mai resa veramente conto del potenziale di “scandalo” insito nella celebrazione eucaristica. Benché il cristianesimo, e in particolare il cattolicesimo, sia quasi programmaticamente costruito proprio sulla provocazione, ossia su una “logica inaudita” che si gloria di essere stultitia per i sapienti, in genere non vi è molta sensibilità, da parte della Chiesa, verso ciò che il banchetto eucaristico rappresenta per chi non sia stato familiarizzato fin da piccolo a quell’idea: l’idea di un “vero uomo” che viene mangiato, in virtù di quello che è inoppugnabilmente un atto di cannibalismo. In effetti, per i non cristiani la reazione immediata più comune di fronte alla “scoperta” dell’eucarestia è di irrisione: simile a quella dell’occidentale che legge di certi indù convinti di purificarsi bevendo l’urina di vacca. Nel nostro caso la “pretesa” è quella di divenire almeno un poco simili a un uomo/dio cibandosi ritualmente del suo corpo. Qualcosa come l’illusione di certe tribù primitive ricordate da E. M. Forster, le quali pensavano di impossessarsi del contenuto dei libri mangiandoli. Accanto all’irrisione, altra reazione frequente è il rifiuto misto a disgusto. Io stesso, benché educato secondo le norme della Chiesa e vissuto in una cultura nel cui universo figurativo l’ostia è immagine ricorrente, penso senza alcun disagio all’eucarestia solo perché sono lontanissimo dal credere che sotto le apparenze del pane e del vino si celino in realtà il vero corpo e il vero sangue di Gesù. Ma avverto nel profondo che, se dovessi credervi, proverei un moto di ribrezzo e di orrore: rifiuto viscerale, dunque, nel senso proprio del termine, ossia ... gastrointestinale. Perché bisogna essere chiari: l’accostamento, da parte degli increduli, della pratica eucaristica al cannibalismo – accostamento considerato dalla Chiesa bestemmia, oltre che manifestazione di rozzezza culturale - è in realtà pienamente legittimo. Cannibale – o, se si preferisce, antropofago (per esorcizzare con l’etimo greco la coloritura di esotico primitivismo propria del termine “cannibale”) - è l’uomo che mangia del corpo di un altro uomo; il che è appunto ciò che accade nel caso dell’eucarestia, dato che il magistero della Chiesa ci assicura che: 1) Gesù era un vero uomo, tranne che nel peccato; 2) il pane e il vino della celebrazione eucaristica, una volta consacrati, sono solo “specie”, ossia apparenze, mentite spoglie, della carne e del sangue di questo vero uomo. In effetti, la dottrina distingue tra un’assunzione puramente simbolica (ossia metaforica, figurata) del corpo e del sangue di Cristo e un’assunzione reale (quella che si ha nella comunione dei cattolici e degli ortodossi; si parla infatti di “presenza reale” del corpo del Cristo sotto le specie eucaristiche), pur precisando talora che tale assunzione non è fisica, ossia materiale. Ammessa e non concessa quest’ultima circostanza (si toccherà il problema nel prossimo capitolo, dedicato alla “transustanziazione”), in perfetta sintonia con il linguaggio usato dalla Chiesa diremo dunque che nell’eucarestia si ha un atto di cannibalismo reale (non necessariamente fisico, quindi, ma neppure semplicemente simbolico). In sostanza: se vi è presenza reale di un vero uomo vi è cannibalismo (ovvero antropofagia) reale, perché un uomo che mangia un uomo compie indiscutibilmente un atto di cannibalismo; vi è cannibalismo simbolico solo se la presenza è simbolica. L’aggettivo che qualifica il termine “cannibalismo” deve in ogni caso essere il medesimo che qualifica il sostantivo “presenza”. In ogni caso, la formula del Concilio di Trento è inequivocabile: “nel santissimo sacramento dell’Eucaristia è contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue del nostro Signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità, e quindi il Cristo tutto intero”; è falso che egli vi sia presente “solo come in un simbolo o in una figura” (DS 1651). Carattere aggressivo dell’eucaristia Dalla presenza reale della carne e del sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino, e dal conseguente innegabile carattere cannibalico del banchetto sacramentale, deriva il carattere oggettivamente aggressivo dell’eucarestia, quando di quest’ultima si faccia una condizione imprescindibile per la corretta e compiuta pratica religiosa. Vittorio Messori in “Scommessa sulla morte” attribuisce al Dio del cattolicesimo la sublime caratteristica di essere “un Dio che si lascia mangiare”. Si tratta di una definizione che descrive in modo efficace la disposizione di spirito del fervente fedele, ma è obiettivamente mistificante per ben tre motivi: 1) suggerisce l’idea di una suprema magnanimità da parte di Dio, il quale in realtà non patisce nulla in conseguenza del venir mangiato (il tema verrà discusso nel penultimo capitolo, “Altre aporie eucaristiche”); 2) lascia intendere che mangiare Dio sia la massima aspirazione di ogni credente o potenziale credente (ossia, in pratica, di ogni essere umano), il che è sicuramente falso; 3) soprattutto, nasconde il fatto che questo Dio infinitamente generoso non si limita affatto ad accettare di venir mangiato, ma addirittura pretende che lo si mangi, pena la dannazione eterna in caso di rifiuto. Il che, evidentemente, stravolge i termini della questione. Quel che si vorrebbe presentare come un’innocua e benefica pratica offerta al fedele per consentirgli di realizzare un più intimo rapporto con Dio è dunque in realtà un atto di violenza, perché costringere un uomo a mangiare un suo simile è indiscutibilmente un atto di violenza. Purtroppo, non si tratta di una distorsione prodotta dall’insegnamento della Chiesa: troviamo enunciato il precetto nel famoso “discorso del pane della vita” nel capitolo VI del quarto vangelo. Gesù è assolutamente esplicito nell’affermare la necessità, per chi vuole salvarsi, di cibarsi del suo corpo; addirittura, con dubbio gusto, insiste ripetutamente sulla masticazione che si dovrà compiere, dando quindi il massimo rilievo realistico alla sue parole, di cui chiede un’interpretazione letterale (cfr. vv. 54, 56 e 57: la sottolineatura, che riprendiamo dalla traduzione della Sinossi di Angelico Poppi, è data dall’impiego della radice trôg- in luogo di phag-, che compare sempre nel resto del discorso). Se ci mettiamo onestamente nei panni dei suoi interlocutori, non possiamo che comprendere la loro reazione di disgusto e di rifiuto. Dobbiamo tra l’altro considerare che essi non erano stati per nulla preparati a una simile prospettiva. Noi siamo familiarizzati all’idea in virtù dell’educazione religiosa ricevuta, e in ogni caso si tratta di un dato presente da venti secoli nella nostra cultura. Per di più, tutto è agevolato dalla conoscenza della formale istituzione dell’eucaristia riferita da Paolo e dai Sinottici, assai più nota (perché presente nella liturgia della messa) e senz’altro meno “urtante”, come si è detto, in quanto passibile di interpretazione figurata (quella preferita dai protestanti). Ma gli ascoltatori del “discorso del pane di vita” non potevano disporre di alcuna di queste mediazioni psicologiche e concettuali, sicché appare del tutto fuori luogo la delusione di Gesù che si atteggia a vittima di una clamorosa incomprensione. Obiettivamente, la reazione dei suoi interlocutori era la normalissima reazione di persone psichicamente normali. Egli avrebbe quindi dovuto attendersela. Siamo qui in uno dei casi in cui gli estremi si toccano: l’orrido confina col sublime, fino a confondervisi. Il tema va trattato con grande delicatezza, perché la political uncorrectness finisce per venire etichettata come vilipendio della religione. Ma va ribadito che la comprensibilissima suscettibilità dei credenti per la profanazione del sublime non è purtroppo accompagnata, in loro, da una pari sensibilità per i sentimenti di chi al solo pensiero dell’assunzione eucaristica inorridisce. P. S. Particolare curioso: da piccolo, era per me un cruccio - per non dire un incubo - la difficoltà di assumere l’ostia nel modo raccomandato da preti e catechisti, ossia tenendola dolcemente appoggiata sulla lingua e inghiottendola senza lacerarla né toccarla coi denti. Purtroppo a me la manovra non riusciva quasi mai: la particola si attaccava al palato, e i tentativi di rimuoverla con la lingua finivano per arrotolarla sconvenientemente, come la pasta intorno al matterello, spesso fino a slabbrarla e romperla. Ironia della sorte, l’incubo sarebbe svanito all’istante se ci avessero fatto leggere integralmente il testo sopra citato di Giovanni, in cui Gesù dichiara esplicitamente e ripetutamente che il suo corpo deve venire addirittura masticato!
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