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Thursday, 21 November 2024
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             L’asserita apparizione ai Cinquecento

 

 

 

 

 

Nella sua prima lettera ai Corinzi, Paolo, facendo un elenco delle apparizioni pasquali di Gesù, secondo quanto gli è stato riferito, ve ne include una “ai Dodici” e una “a più di cinquecento fratelli in una sola volta”. Queste affermazioni fanno sorgere non pochi problemi.

 

A - In primo luogo, è superfluo dire che dell’apparizione ai “Cinquecento” gli evangelisti non fanno cenno. Del resto, come già abbiamo avuto occasione di ricordare, la Bibbia TOB scrive, a proposito dell’elenco di Paolo, che “è difficile, e forse vano, far coincidere queste apparizioni con quelle raccontate nei vangeli”.

 

Ciò nonostante, i tentativi di riconoscere la fantomatica apparizione ai Cinquecento in qualcuna di quelle descritte nei vangeli canonici non sono mancati.

L’ipotesi più seguita è naturalmente quella che concentra l’attenzione sull’apparizione descritta da Matteo, poiché è l’unica che, svolgendosi all’aperto, potrebbe “ospitare” un così gran numero di spettatori (quella sul lago di Tiberiade ha per protagonisti, secondo la precisazione di Giovanni, solo sette discepoli).

 

Ad esempio, secondo Lenski si deve intendere che in tale occasione fossero presenti, oltre agli apostoli, molte altre persone, in quanto nella versione di Marco l’angelo posto al sepolcro include le donne tra coloro che Gesù precederà in Galilea (nonché tra coloro cui aveva a suo tempo preannunziato la cosa); d’altra parte, a Gerusalemme non si raggiunsero mai tali cifre (solo 120 persone dopo l’Ascensione, secondo At 1, 15).

Gesù, dice Lenski, voleva incontrare la massa dei suoi discepoli lontano dalla nemica Gerusalemme e vicino alla loro dimora, là dove egli aveva predicato. Se avesse voluto incontrare solo gli apostoli, aggiunge, poteva incontrarli una terza volta a Gerusalemme; quanto all’appuntamento su quel monte, gliel’avrà dato in uno degli incontri precedenti (il che è invece da escludere, come sappiamo, in quanto quell’apparizione risulta essere la prima).

 

Lenski dunque parte dal presupposto che l’affermazione di Paolo sia vera e che quell’apparizione debba figurare nei vangeli. Ma la sua congettura è incompatibile con vari dati evangelici:

 

1) Matteo dice chiarissimamente che “gli Undici discepoli andarono nella Galilea, sul monte dove Gesù aveva loro ordinato”: se l’apparizione era destinata a una folla, la precisazione sarebbe decisamente fuori luogo;

 

2) come al solito, Lenski ignora l’ordine dato da Gesù agli apostoli (nel terzo vangelo) di non muoversi da Gerusalemme fino alla Pentecoste;

 

3) per lui, l’apparizione sul monte in Galilea viene dopo quella al lago di Tiberiade, e precede di poco l’Ascensione. Ma ciò è assurdo, se si pensa che l’apparizione in riva al lago, secondo quanto ci dice Giovanni, è la terza, sicché quella sul monte dovrebbe essere almeno la quarta!

Mentre dal testo di Matteo, ripetiamo, appare chiaramente che si tratta della prima.

 

B - Parlando di un’apparizione ai “Dodici”, Paolo dà l’ennesima dimostrazione di sapere poco o nulla della vita di Gesù. Gesù non può essere apparso ai Dodici, poiché Giuda si uccide prima di Pasqua, secondo Matteo; e comunque, dopo la scena del Getsemani, non poteva certo più stare con gli altri undici. Dal canto suo, Mattia viene eletto solo dopo l’Ascensione.

Questa potrebbe venire considerata una semplice imprecisione, una disattenzione, da parte di Paolo, per cui può apparire cavilloso il rilevarla. Ma si tratta in ogni caso di un’imprecisione significativa, poiché dimostra che Paolo non aveva sottomano – oppure scientemente ignorava – i materiali, o almeno le tradizioni, che già avrebbero dovuto circolare circa i detti e i fatti di Gesù.

 

Matteo, Marco e Luca sono infatti unanimi nel parlare di Undici e solo di Undici (e a ciò non contraddice neppure il fatto che Giovanni definisca Tommaso “uno dei Dodici”: la definizione, alludendo alla composizione “storica” del collegio apostolico, non dice nulla circa il numero degli apostoli presenti in quell’occasione).

Questo fa sorgere dubbi sull’attendibilità di quel che Paolo dice di aver “ricevuto”: pare, insomma, che non l’abbia ricevuto molto bene.

Ovvero, siamo costretti a postdatare anche le tradizioni e i documenti poi confluiti nei vangeli canonici (nel qual caso cade anche l’ipotesi degli “Urtexte” in aramaico a cui si accennerà nel capitolo "Come mai non si sono rimaneggiati i testi?).

 

     C - Ma quello che più colpisce, nell’elenco di apparizioni pasquali fornitoci da Paolo, è la postilla che egli appone alla menzione dei “cinquecento fratelli”: “la maggior parte di essi vive ancora”, dice, “mentre altri sono morti”.

      Questo vorrebbe significare, sostiene l’apologetica, che quando egli scriveva (tra il 51 e il 56 d. C.) esistevano ancora testimoni in grado di confermare o, viceversa, smentire la sua affermazione.

      Ma, concretamente, chi mai di costoro avrebbe potuto levarsi a dire “Non è vero, io non l’ho visto!”, se l’apostolo non fa alcun nome né dà la minima indicazione per riconoscere qualcuno di questi fantomatici Cinquecento?

 

Paolo non visse di persona quei momenti, parlava per sentito dire. All’epoca dell’evento pasquale egli viveva nell’Asia minore, ignorando persino l’esistenza di Gesù, e anche in seguito rimase per la maggior parte del tempo lontano dalla Palestina; sicché è alquanto improbabile che abbia potuto appurare l’identità di tanto numerosi veggenti.

Del resto, l’affermazione che a distanza di 20-25 anni “la maggior parte di essi vive ancora, mentre altri sono morti” è talmente banale nella sua genericità da far sorgere proprio il sospetto dell’intento, da parte dell’apostolo, di ostentare un livello di informazione in realtà non posseduto.

 

In effetti, le possibilità di verifica da parte dei destinatari della lettera erano poche o nulle, se si pensa che:

-

1) di questa straordinaria apparizione non vengono neppure indicati né il luogo né il momento;

2) non si vede come i Corinzi potessero concretamente contattare i beneficiari dell’apparizione, che presumibilmente risiedevano tutti in Palestina;

3) in ogni caso, tali contatti erano impossibili in mancanza di nomi e recapiti precisi, dati che Paolo non solo non fornisce (l’epistola potrebbe non essere la sede opportuna), ma non dice neppure di potere e voler fornire (anche se un Sabino Palumbieri ha la sfrontatezza di parlare di “riferimenti circostanziati”!).

E l’apostolo, si badi, non dice neppure a chi ci si debba rivolgere per prendere visione di questo immaginario elenco.

 

Se non che egli, con una vaga indicazione circa la percentuale di sopravvissuti (in pratica: “ne son morti meno della metà”; percentuale che chiunque avrebbe potuto sparare, considerando gli anni trascorsi), dà quasi l’impressione di avere davanti a sé, sul monitor di un computer, tutti i dati aggiornati circa i cinquecento fratelli. Sottilissima mistificazione, ovvero volgare bluff.

 

Ma a questo punto interviene l’apologetica, per dirci che, a prescindere da quel che poteva sapere personalmente Paolo, la Chiesa primitiva deve aver tenuto una registrazione completa e aggiornata di questi cinquecento nominativi, depennando via via quelli di coloro che decedevano.

Scrive Messori che è “addirittura probabile che la comunità primitiva tenesse una lista aggiornata [sic] di quei cinquecento testimoni, rinviando ad essa gli scettici, i dubbiosi, i negatori” (DCR 85); e ribadisce che i beneficiari delle apparizioni “non furono affatto intesi dalla Chiesa primitiva come una massa anonima, dunque facile preda di illusioni, ma costituirono una sorta di ‘collegio di testimoni’, probabilmente con tanto di elenchi nominativi aggiornati” (p. 118; corsivi nostri).

 

Se qualcuno domanda perché mai i vangeli non facciano il minimo cenno né dell’apparizione né dell’elenco di testimoni, si risponde con una congettura affacciata da Harnack, secondo cui ciò si deve al fatto che all’epoca della stesura definitiva dei vangeli (ossia 15-30 anni dopo la redazione del testo di Paolo), la maggior parte dei Cinquecento non era più viva, e quindi il valore di prova dell’apparizione e dell’elenco si era alquanto ridotto.

Anzi, questo silenzio dimostrerebbe addirittura la scrupolosità degli evangelisti, restii a citare una testimonianza non più verificabile.

 

Argomento invero stravagante, se si pensa che per lo stesso motivo si sarebbe allora dovuto tacere anche delle apparizioni a tutti i testimoni non più in vita, a cominciare da Pietro.

In sostanza: se tutto questo aveva avuto un valore apologetico, doveva venir considerato importante riferire che ai potenziali scettici era stata data, a suo tempo, una possibilità di verifica; il che, del resto, è proprio quel che ancora cerca di fare, a forza di fumosissime congetture, l’apologetica dell’anno 2000!

 

Congetture, dunque: “Non è che un’ipotesi, questa di Harnack, ma fondata; in ogni caso suggestiva, atta a mostrare che molte (e magari ormai incomprensibili a noi) possono essere state le ragioni che hanno portato alla concordia discors in cui ci appare parte del Nuovo Testamento; e nei racconti pasquali più che mai”.  

Dunque, come sempre, tutta l’argomentazione apologetica si riduce a un’ipotesi, che avrà magari una probabilità su mille di essere vera, ma che a tavolino appare ben “fondata”; e comunque ha l’innegabile pregio (anche l’estetica vuole la sua parte!) di essere “suggestiva”: che si vuole di più?

In ogni caso, a scanso di equivoci, Messori ribadisce: “Sembra certo che la Chiesa primitiva conservasse la lista di quei cinquecento, decisivi testimoni, e che la tenesse aggiornata, cancellando quelli che via via morivano” (p. 75).

 

Abbiamo voluto riportare tutti i passi in cui viene affermata tale tesi perché sia chiaro che su un fantasma si è costruito un castello, gonfiando a dismisura quella che poteva essere un’osservazione marginale. Si è voluto dar corpo alle ombre con un diluvio di “ipotesi”, di “probabile” e “probabilmente”, nonché di “sembra certo” (raffinato ossimoro).

 

Bene. Se dobbiamo stare a quanto “sembra”, diremo allora che a noi questa del registro dei Cinquecento tenuto aggiornato dalla Chiesa primitiva sembra una bufala colossale.

Va detto chiaro: prima facie, non è possibile altro giudizio. Se poi verranno addotti elementi di prova, saremo pronti a prenderli nella debita considerazione.

Fino a quel momento, diciamo che un minimo di pudore dovrebbe indurre a rinunciare a congetture che, in assenza di qualsiasi supporto dimostrativo, hanno il solo pregio di risultare gratificanti per l’apologeta in difficoltà.

Rinunciare cioè a supporre attiva, nella comunità delle origini, una sorta di segreteria centralizzata che, stralciando i nominativi di coloro che via fax o per e-mail venivano segnalati defunti, provvedeva a tenere aggiornato in tempo reale l’elenco dei superstiti.

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In una parola: rinunciare alla fantapologetica.-

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