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L’asserita presenza di Maria sul Calvario Il quarto vangelo, che la Chiesa da sempre attribuisce all’apostolo Giovanni (e che è comunque opera della scuola giovannea), ci racconta che, prima di spirare, Gesù affidò la madre al discepolo prediletto (in cui la tradizione ha sempre visto l’apostolo medesimo) e, al tempo stesso, il discepolo alla Vergine in qualità di figlio. I due quindi sarebbero stati fisicamente presenti sul Golgota accanto a Gesù. In effetti la presenza di Maria ai piedi della croce, a condividere i drammatici momenti dell’agonia del Redentore, è uno dei dati più universalmente conosciuti della vicenda terrena del Cristo. La figura della mater dolorosa che assiste alla crocifissione, alla deposizione e alla sepoltura del figlio è una delle icone che nel corso dei secoli più si sono impresse nell’immaginario collettivo dei popoli cristiani. Ma, incredibilmente, tale presenza è attestata nei vangeli in un modo tanto avaro e contraddittorio da risultare quanto mai dubbia - è il minimo che si possa dire - a uno sguardo non condizionato dal peso della tradizione. È sorprendente come l’apologetica sorvoli su tale circostanza: dovrebbe essere evidente che un comune lettore della Bibbia ne rimane colpito, per cui gradirebbe qualche chiarimento. Senonché, dato che ci si troverebbe in grave imbarazzo a proporre soluzioni, si preferisce fingere di non vedere neppure il problema. Messori non fa eccezione: non dedica alla questione neppure uno dei suoi “colpi di sonda”, e dà naturalmente per scontato che ai piedi della croce Maria ci fosse. Ma la cosa è tutt’altro che pacifica. I principali motivi che inducono a dubitare si possono suddividere in tre gruppi: 1) testimonianza in contrario da parte dei vangeli sinottici; 2) esplicite asserzioni di Gesù che escludono la presenza di Giovanni sul Calvario; 3) carattere intrinsecamente sospetto della testimonianza del quarto evangelista. A ciò si aggiungono motivi minori, di natura “indiziaria”, tra cui in primo luogo la totale assenza di Maria nei racconti della Risurrezione. La testimonianza negativa dei sinottici La testimonianza negativa riguarda sia la presenza di Maria che quella di Giovanni. A. La presenza della Vergine Matteo ci dice che sul Calvario, ad assistere da lontano all’agonia di Gesù, ci sono molte donne che hanno seguito Gesù dalla Galilea “per servirlo”; di esse vengono espressamente citate Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo (ossia degli apostoli Giacomo e Giovanni). Marco dice la stessa cosa, con l’unica differenza che fa soltanto il nome delle prime due donne, tacendo della moglie di Zebedeo; anche per lui queste donne stanno a guardare da lontano. Luca non cita nessun nome, ma ci dice che a osservare, sempre da lontano, ci sono “tutti i conoscenti” di Gesù e “delle donne, che l’avevano accompagnato dalla Galilea”. Testimonianze non identiche, dunque, ma pienamente compatibili e sostanzialmente concordi. Concordi in particolare su due punti: 1) le donne si trovano lontano dalla croce, anziché accanto ad essa, come risulta essere Maria nel quarto vangelo; 2) non si fa alcun accenno alla presenza della Vergine, che quindi siamo autorizzati a considerare assente sul Golgota. Si badi che questo non è un semplice argumentum e silentio: non deduciamo l’assenza di Maria solo dal fatto che la Vergine non viene menzionata. La deduciamo dal fatto che i tre evangelisti ci fanno un elenco di chi era presente alla crocifissione, e in particolare ci dicono quali donne si trovavano sul Calvario; e tra queste donne Maria non figura. Dire che è stata semplicemente “dimenticata” non migliora la situazione. Dovremmo dedurre o che era considerata irrilevante nel contesto della scena dell’immolazione del figlio (il che sarebbe gravissimo sotto il profilo teologico, per colei che si vorrebbe presentare come “corredentrice”), o che tutti e tre i sinottici hanno commesso una gaffe clamorosa: come il cronista che, riferendo dell’inaugurazione del Teatro alla Scala, citasse fra le autorità presenti nel palco d’onore (l’ex palco reale) il sindaco, il prefetto, il questore, il ministro tale, il sottosegretario tal altro, e dimenticasse … il Capo dello Stato (o, in altri tempi, il Re). Gaffe meritevole di licenziamento in tronco. D’altra parte, non essendo identici gli elenchi forniti dai vari evangelisti, non è possibile che si tratti della medesima involontaria omissione passata meccanicamente da un vangelo all’altro per semplice copiatura o per utilizzazione di una medesima fonte (in tal caso, rimarrebbe comunque grave il fatto che nessuno dei sinottici abbia inserito il nome dimenticato, rimediando all’omissione di chi l’aveva preceduto). Né può trattarsi di una omissione voluta in vista della particolare destinazione di ciascun vangelo: dovremmo pensare che solo ai destinatari di Giovanni importasse sapere se Maria era o no ai piedi della croce, mentre a tutti gli altri non importava un bel niente? L’apologetica, quando è veramente costretta ad affrontare il tema (come è ad esempio il caso di sant’Agostino nel “Consenso degli evangelisti”, opera scritta appositamente per spiegare le situazioni di “apparente” contrasto tra i vangeli; oppure quando si deve rispondere alle domande di un lettore o di un ascoltatore) ricorre ad argomentazioni inconsistenti. Sant’Agostino dice che una medesima collocazione poteva venir giudicata al tempo stesso “vicina” e “lontana”, in quanto era in effetti non troppo vicina né troppo lontana; in alternativa suggerisce che le donne, in un primo tempo vicine alle croce come dice il quarto vangelo, se ne siano allontanate dopo l’affidamento di Maria a Giovanni (e viceversa) da parte di Gesù. A. M. Tentori, conduttore di Radio Maria, ha trovato modo di dire che Luca ha taciuto di Maria perché non gli bastava l’animo di far presenziare la madre al supplizio del figlio … Non è neppure il caso di commentare. Va anche notato che ciascuno dei sinottici, quando ci parla delle donne che assistono alla sepoltura di Gesù, ripropone, con qualche minima variante, l’elenco di nomi - o, nel caso di Luca, la formula riassuntiva - che ci ha dato parlando della crocifissione. È pertanto ragionevole concludere che ai sinottici non risultava che Maria fosse presente sul Calvario. B. La presenza di Giovanni Per quanto riguarda la presenza del discepolo amato, il discorso non è diverso, e gli evangelisti sono ancora più espliciti: Matteo e Marco, come abbiamo visto, ci informano che tutti i discepoli fuggirono al momento dell’arresto di Gesù, abbandonando il Maestro. Poi, al pari di Luca, ci riferiscono di Pietro che seguì da lontano il gruppo delle guardie sino al palazzo di Caifa, dove fece il triplice rinnegamento, per poi “scomparire” sino al mattino di Pasqua. Nessuno dei sinottici fa il minimo accenno a un’eccezione costituita dalla presenza di Giovanni, né accanto a Pietro nel palazzo del gran sacerdote né tanto meno alla crocifissione. È pertanto ragionevole concludere che ai sinottici non risultava che Giovanni fosse presente sul Calvario. Le predizioni di Gesù che escludono la presenza di Giovanni Matteo (26, 31) e Marco (14, 27), come sappiamo, sono espliciti nel riferire le parole di Gesù agli apostoli: “Tutti vi scandalizzerete di me”; e due versetti più avanti entrambi ribadiscono il concetto con le parole di Pietro: “(Anche) se tutti si scandalizzeranno …”. Dunque è chiaro: Gesù predice che tutti i discepoli lo abbandoneranno nel momento della prova. Ciò è assolutamente inconciliabile con quanto ci dice il quarto vangelo circa la presenza del discepolo amato ai piedi della croce, nonché circa la presenza sua (o di altro discepolo) nel palazzo del Sommo sacerdote (dal racconto di Giovanni si ricava addirittura che egli non rimase nel cortile con Pietro – in effetti tutto fa pensare che questi fosse solo, al momento del rinnegamento –, e non se la squagliò poi con lui). Giovanni è quindi smentito da Matteo e da Marco, o meglio da Gesù stesso quale ce lo presentano i due sinottici. Di conseguenza, o il quarto evangelista o gli altri due mentono. Va detto che in teoria, per quanto riguarda la presenza del discepolo amato sotto la croce, vi sarebbe da considerare una terza possibilità: che Gesù si sia sbagliato in pieno nella sua predizione; ma penso che, fra le tre, tale ipotesi sia la meno accettabile per il credente. Comunque, delle tre l’una: o mentono i due sinottici o mente Giovanni o si è sbagliato (oppure … ha mentito) Gesù; quartum non datur. Ma vi è di più. Anche nel quarto vangelo vi è un passo, in genere passato sotto silenzio, in cui Gesù preannunzia il suo abbandono da parte di tutti i discepoli: “Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 16, 32). Giungiamo quindi alla conclusione che, presentando il discepolo prediletto accanto al Cristo nel palazzo di Caifa e soprattutto sul Golgotha, il quarto evangelista entra in contraddizione anche con se stesso. Il che significa che i due blocchi di cui le due opposte affermazioni fanno parte hanno origine diversa, e che, al momento dell’assemblaggio, al redattore è sfuggita la presenza della contraddizione. Ciò, probabilmente, perché i capitoli 14-17 in cui è inserito il passo ora citato hanno carattere esclusivamente teologico-mistico, mentre il cap. 19, in cui figura l’affidamento di Giovanni a Maria, ha in primo luogo, al pari del precedente e dei due successivi, contenuto chiaramente narrativo. Resta comunque il fatto inoppugnabile che Gesù non avrebbe mai pronunciato le parole che figurano in Gv 16, 32 qualora avesse saputo che un discepolo gli sarebbe rimasto vicino fino all’ultimo; un discepolo, per di più, destinato ad essere protagonista, proprio sotto la croce, di un evento di capitale importanza nella storia della salvezza. A meno che, come si è detto a proposito delle sue predizioni riferite da Marco e Matteo, non si voglia insinuare che egli si sia grossolanamente sbagliato. Vi sono infine altre parole di Gesù che preannunziano una situazione incompatibile con la presenza di Giovanni sul Calvario (e, prima ancora, nel palazzo del Sommo sacerdote). Sono le parole rivolte a Pietro e riferiteci da Luca: “ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22, 32). Ora, se fosse vero che Giovanni era ai piedi della croce risulterebbe fuori luogo, al limite dell’umorismo – tragico umorismo -, il conferimento a Pietro dell’incarico di “confermare [nella fede] i fratelli” (da notare che tale passo è uno dei pilastri su cui si fonda la tesi del “primato di Pietro”). Se infatti, nell’ipotesi di una diserzione di tutti i discepoli, è ammissibile che Gesù affidi a Cefa, nonostante il clamoroso rinnegamento che sta per predirgli, tale ruolo di primus inter pares, l’affidamento diviene assurdo se era previsto che uno dei discepoli rimanesse saldo nella fede, vincendo la propria frustrazione e sfidando coraggiosamente ogni pericolo. Che bisogno avrebbe avuto costui di farsi “corroborare” nella fede da Pietro? Avrebbe anzi avuto pieno titolo per rifiutare sdegnosamente la sua tardiva sollecitudine. E a lui sarebbe dovuto toccare il compito di “corroborare i fratelli”. - In altri termini: Lc 22, 32 ha senso solo se collegato a Mt 26, 31 e Mc 14, 27. Qui i tre sinottici si integrano in modo abbastanza armonioso. E tutti e tre smentiscono frontalmente l’affermazione di Giovanni circa la sua presenza sul Calvario. Il quarto evangelista come testimone estremamente sospetto La testimonianza del vangelo giovanneo affermante la presenza di Maria e di un discepolo accanto alla croce risulta poi quanto mai sospetta perché coinvolge come protagonista, presentandolo in una luce particolarmente favorevole, il più giovane degli apostoli, ritenuto autore del vangelo stesso. Che poi in effetti il vero autore sia l’apostolo in persona o qualche suo discepolo (ovvero un gruppo di discepoli), poco importa; è fuori discussione che nel quarto vangelo il figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo - designato come “l’altro discepolo”, o “il discepolo che Gesù amava” (la grande maggioranza dei commentatori concorda circa l’identificazione) - viene costantemente posto in primo piano, e gli vengono attribuiti molti “primati” e comportamenti degni di elogio. Possiamo ricordare telegraficamente: la priorità, tra gli apostoli, nella chiamata da parte del Signore, o, meglio, l’iniziativa stessa della sequela (sempreché sia Giovanni, come pare più che probabile, il discepolo del Battista che accompagna Andrea); la presenza a fianco del Cristo (sul cui petto posa il capo) durante l’Ultima Cena; il riuscito tentativo di introdursi nel palazzo di Anna dopo l’arresto di Gesù, ottenendo l’ingresso anche per Pietro; la presenza ai piedi della croce accanto a Maria, alla quale viene associato dal duplice affidamento; la visita – compiuta insieme a Pietro - al sepolcro vuoto, dove per primo attinge la fede nell’avvenuta Risurrezione; e infine il ruolo di carismatico protagonista presso il lago di Tiberiade in occasione dell’apparizione notturna di Gesù, che egli non a caso è il primo a riconoscere. Per coloro poi che, come I. de la Pottery, insistono sul fatto che il “Beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto” va inteso letteralmente così (riferito cioè al passato anziché come presente gnomico), il quarto evangelista oserebbe attribuire a Gesù un pubblico elogio di quello che egli vuole accreditare come un suo primato: il fatto di aver creduto alla Risurrezione già di fronte al sepolcro vuoto, ossia prima di vedere il Risorto. Ora, tutti questi episodi hanno in comune il fatto di essere totalmente ignorati dai sinottici, i quali spesso ci danno per di più una versione dei fatti che smentisce quella di Giovanni. Secondo loro, infatti, i primi apostoli chiamati alla missione sono Pietro e Andrea; al momento dell’arresto, come abbiamo visto, tutti gli apostoli e i discepoli fuggono, salvo Pietro, il quale, solo, osa spingersi nel cortile del palazzo di Anna, ma dopo il triplice rinnegamento anch’egli si dilegua, sicché nessun apostolo (neppure Giovanni, dunque) viene citato tra gli “amici” presenti sul Calvario. La visita al sepolcro vuoto poi urta contro la versione di Marco e Matteo, e neppure Luca accenna alla partecipazione di Giovanni, che viene addirittura esclusa da Lc 24, 12; e quanto all’apparizione del Risorto sulla sponda del lago, essa, che costituisce evidentemente una posteriore aggiunta al corpo del quarto vangelo, è difficilissima da inserire nella serie delle apparizioni postpasquali, sì da suscitare mille perplessità. Ma vi è qualcos’altro di non meno interessante da sottolineare. Non solo sono assenti nei sinottici tutti gli episodi del quarto vangelo in cui Giovanni fa una “bella figura”, ma in essi ne figurano almeno un paio in cui, al contrario, Giovanni e il fratello Giacomo fanno una pessima figura, tengono cioè un comportamento che merita loro un rimprovero di Gesù e in un caso suscita persino lo sdegno di tutti gli altri apostoli. Si tratta della proposta dei due fratelli di invocare un fuoco distruttore su un villaggio samaritano e della loro richiesta di sedere l’uno alla destra e l’altro alla sinistra del Signore nella sua gloria (Lc 9, 54-55; Mc 10, 35-45). Si potrebbe aggiungere, pur se meno significativo, l’episodio riferito in Mc 9, 38-40, in cui Giovanni si fa portavoce di un atteggiamento degli apostoli che, anziché riscuotere l’approvazione di Gesù, come presumibilmente il discepolo sperava, induce il Maestro a un pacato monito: “Chi non è contro di noi è per noi”. Orbene, come è fin troppo facile immaginare, questi episodi nel quarto vangelo non ci sono. Ed è superfluo ricordare che in esso non figura neppure la notizia dell’avvenuta fuga di tutti quanti gli apostoli, notizia fornitaci concordemente dai sinottici. Del resto, il fatto che Giovanni sia designato come “il discepolo che Gesù amava” non lascia dubbi circa il ruolo privilegiato che il quarto vangelo gli attribuisce. Sono patetici i tentativi di dimostrare che l’espressione non vuole indicare predilezione - il che, si ammette, sarebbe cosa disdicevole, condannata da Gesù stesso -, bensì la condizione di colui che è diventato discepolo perché ha osservato la parola di Dio. Egli starebbe cioè a indicare come deve essere un vero discepolo per essere amato da Cristo. Il quarto vangelo, dice ad esempio A. M. Tentori, tende a delineare dei tipi, ossia figure che hanno un valore simbolico: come la Samaritana è l’emblema di chi cercando la felicità terrena non riesce a placare la sua sete, così Giovanni è la personificazione simbolica della fedeltà e dell’amore, ricambiati da Gesù. Si tratta di una tesi manifestamente insostenibile per vari motivi: 1) questo presunto discepolo simbolico, che si vorrebbe rappresentativo di tutti i discepoli, di fatto interagisce con gli altri, tra i quali viene distinto proprio in virtù di questa caratterizzazione, che essi non possiedono: mentre la si afferma di lui, la si nega degli altri, ai quali implicitamente lo si contrappone; 2) al di fuori del quarto vangelo, tale caratterizzazione non viene usata in alcun altro testo canonico; 3) per una strana coincidenza, il quarto vangelo ha per autore proprio il discepolo prediletto (o, in ogni caso, alcuni suoi seguaci). Resta ancora da fare un’osservazione importante. In quasi tutti i passi del vangelo di Giovanni in cui l’apostolo che si presume ne sia l’autore appare in una luce particolarmente favorevole, si nota una più o meno scoperta contrapposizione con Pietro. Questi viene sempre presentato come l’apostolo più autorevole, ma Giovanni risulta essere il più “bravo”, il più chiaroveggente, il più vicino al cuore di Gesù, che lo ama appunto sopra ogni altro. Basterà scorrere l’elenco, sopra riportato, dei passi in questione per vedere come Pietro sia addirittura costretto in alcuni casi (nel cenacolo e all’ingresso del palazzo di Anna) a valersi dei servigi del giovane condiscepolo, nei cui confronti viene quasi a instaurarsi una sorta di dipendenza. Benoit è esplicito su questo punto: parla dell’ “emulazione” tra i due apostoli come di un tema frequente nel quarto vangelo, definisce Giovanni “fraternamente rivale” di Pietro e scorge in questi passi “sempre la stessa preoccupazione: mettere a fianco di Pietro il capo del gruppo giovanneo” (“Passione e resurrezione del Signore”, pp. 360-62). La contrapposizione tra i due raggiunge l’apice nell’episodio dell’apparizione sul lago, dove il giovane apostolo è il primo a riconoscere Gesù; anche nella scena conclusiva, pur se Pietro viene ufficialmente investito della missione pastorale, egli conserva, grazie al mistero che avvolge il suo destino, una sorta di enigmatica superiorità. In questa contrapposizione molti vedono adombrato l’eterno contrasto tra potere sacerdotale e potere profetico-carismatico. Tornando ora a considerare la situazione verificatasi sul Calvario, vediamo che anche nell’episodio che ci interessa la contrapposizione rispetto a Pietro è presente in forma implicita: mentre il principe degli apostoli è latitante per viltà, il primo della classe, il discepolo che Gesù amava, sta bravamente accanto al Maestro nell’ora suprema. Non è neppure il caso di sottolineare che l’episodio in cui l’apostolo figura accanto alla Vergine è obiettivamente quanto mai lusinghiero per il protagonista, a cui viene assegnato da Gesù stesso, con l’ultimo atto decisionale della sua vita terrena, un incarico prestigioso. Oltre ad attestare materialmente la sua presenza sul Calvario, il resoconto del quarto vangelo coinvolge il discepolo prediletto in una vicenda – l’ “affidamento” - che lo lega strettamente alla madre di Gesù. Ci sono dunque tutte le caratteristiche per imparentare questo passo evangelico a tutti gli altri di cui si è detto, nei quali il discepolo amato si ritaglia un ruolo speciale e particolarmente gratificante. Il che equivale a dire che vi sono tutti gli elementi per dubitare fortemente della verità di quanto Giovanni ci racconta circa la sua presenza sul Calvario accanto alla Vergine. Va notato che spesso, quando le informazioni - specie di carattere storico o geografico - forniteci da Giovanni contraddicono quanto ci riferiscono i sinottici, buona parte della critica tende a privilegiare le notizie dell’apostolo. Ma naturalmente questo non può valere per gli episodi ignorati (e magari implicitamente smentiti, come nel nostro caso) dai sinottici e nei quali l’autore del quarto vangelo ha un ruolo di protagonista (e, s’intende, di protagonista positivo). Testimonianza incrociata Come si è visto, gli argomenti che depongono contro la presenza di Giovanni e Maria vengono a costituire una sorta di “testimonianza incrociata” negativa. I sinottici escludono in pratica la presenza di Maria sul Golgota, e ancor più chiaramente, seppur non in modo diretto, escludono, in altri passi, quella del discepolo amato. Poiché nel quarto vangelo la presenza dei due personaggi è affermata in un modo che li lega inscindibilmente l’uno all’altro, la negazione dei sinottici ne risulta sinergicamente rafforzata: se non è attendibile la presenza di Giovanni, risulta invalidata anche la sua testimonianza circa la presenza della Vergine, e viceversa. Altri motivi che rendono improbabile la presenza di Maria sul Calvario Accanto agli argomenti sin qui illustrati, che portano ad escludere la presenza di Maria (e di Giovanni) accanto alla croce, ve ne sono altri che hanno un valore per così dire “indiziario”, ma che orientano verso la medesima conclusione. 1) Maria non risulta presente nel gruppo dei discepoli prima della Passione, dopo l’arrivo di Gesù a Gerusalemme. Anche in occasione dell’Ultima cena di lei non si fa cenno. 2) Maria non compare nei racconti della Risurrezione. La pietà dei fedeli ha naturalmente favoleggiato (ma, particolare significativo, solo a partire dalla fine del IV secolo!) di un’apparizione di Cristo - la prima in assoluto – alla Madre; se non che, a parte il fatto che si tratterebbe in ogni caso di una pia congettura, la stessa organizzazione “logistica” dell’incontro con la madre, all’insaputa di tutte le altre persone – in primo luogo le pie donne –, pone molti problemi, sì da renderlo oggettivamente quanto mai improbabile. 3) Se Giovanni, al pari delle pie donne e a differenza di tutti gli altri discepoli, aveva saputo vincere la propria frustrazione e osato sfidare il pericolo (quanto grave non sappiamo) per rimanere accanto al suo Maestro morente, sembra assai strano che la domenica mattina non vada al sepolcro con le donne stesse, che senza dubbio avrebbero gradito la sua presenza per avere un aiuto nella rimozione della pietra di chiusura. Tutto induce a pensare che egli, uniformandosi all’atteggiamento degli altri apostoli, non faccia che continuare sulla stessa linea seguita in precedenza, e che quindi fosse anche lui, come gli altri, lontano dal Calvario durante l’agonia di Gesù. 4) Quasi tutti gli eventi e le circostanze importanti della Passione, nonché della morte e sepoltura di Cristo, figurano nei vangeli in quadruplice attestazione, o comunque riferiti da almeno due evangelisti. L’affidamento incrociato di Maria a Giovanni e di Giovanni a Maria rappresenta un’eccezione vistosa, che colpisce il lettore ormai abituato a vedere un certo accordo tra i vari vangeli, e soprattutto a vedere confermati i sinottici da Giovanni. La brusca rottura del regime di attestazione multipla non può non costituire un ulteriore grave motivo di sospetto circa l’attendibilità dell’episodio che ci interessa. Comunque sia, come in tutti i casi simili l’apologetica deve imprescindibilmente fornire spiegazioni persuasive del silenzio - che è in pratica smentita - di tre evangelisti su quattro. Conclusione circa la presenza di Maria e Giovanni sul Calvario Considerando tutte le argomentazioni, principali e secondarie, che si sono illustrate, si può affermare che la mole di elementi probatori o indiziari che depongono contro la presenza di Maria e del discepolo amato accanto al Crocifisso è imponente. Solo un’accettazione acritica dei dati forniti dagli evangelisti e la ragion teologica, che impone la presenza della Vergine accanto al Figlio in agonia, portano la Chiesa a chiudere gli occhi di fronte alla massa schiacciante di argomenti che rendono inattendibile il racconto del quarto vangelo. E l’apologetica, come si è detto, se non è presa per i capelli e costretta a fornire spiegazioni, finge di non vedere il problema. Anche un esegeta onesto e aperto come Benoit, che spesso non esita a scrivere che determinati eventi riferiti dagli evangelisti non si devono ritenere realmente avvenuti, ma furono verosimilmente suggeriti da motivazioni teologiche (ovvero dalla sollecitudine pastorale o ecclesiale), in questo caso non sfiora neppure l’argomento. Prendere in considerazione il problema infatti significherebbe soppesare le ragioni pro e contro l’attendibilità della testimonianza giovannea; e la bilancia appare così clamorosamente squilibrata in senso sfavorevole che all’esegeta, conscio dell’importanza decisiva della presenza di Maria sul Calvario per tutta la dottrina e la tradizione cristiano-cattolica, corrono i brividi per la schiena all’idea di gettare anche solo qualche dubbio sulla circostanza riferita dal quarto vangelo. Così, quell’esegesi che non esita ad attribuire ad interventi redazionali degli evangelisti (mirabilmente concordi) una buona dozzina di preannunzi della Risurrezione che i vangeli ci presentano come proferiti da Gesù stesso, qui non ha il coraggio di dire che le condizioni di attestazione della presenza di Giovanni e Maria sul Calvario sono talmente precarie da autorizzare ogni dubbio, per non dire che danno praticamente la certezza dell’inattendibilità dell’informazione. Tra le lodevoli eccezioni, va segnalata quella di un autorevole biblista, Giuseppe Barbaglio, che nel suo recente “Gesù ebreo di Galilea”, dopo aver giudicato possibile, pur se improbabile, la presenza delle pie donne, scrive: “Invece creazione certa del Quarto Vangelo, o anche della sua fonte, è la presenza di Maria e del discepolo amato …” (corsivo nostro). Concretamente, se Maria non era sul Calvario, e han dunque ragione i sinottici, il racconto del quarto vangelo non è che una pia fraus. Se invece Maria c’era, come dice Giovanni, allora l’omissione della sua presenza da parte dei primi tre evangelisti depone assai male circa l’attendibilità delle loro informazioni; nel caso poi che si tratti di un silenzio volontario, deliberato, saremmo di fronte a una vera e propria censura, di cui si dovrebbero individuare le ragioni: entreremmo in una sorta di giallo. In entrambi i casi si tratterebbe di un fatto squalificante per l’immagine della Vergine. Comunque sia, si deve prendere atto che, oggettivamente, alle prime due generazioni di cristiani fu negata la preziosa informazione della presenza di Maria accanto al Crocifisso, ossia un dato assolutamente fondamentale per la mariologia e la cristologia di ogni tempo. Le motivazioni di Giovanni. La posizione della Chiesa Ma la testimonianza del quarto vangelo circa la presenza di Maria sul Calvario, per quanto irrinunciabile per motivi teologici, pone essa stessa non pochi problemi alla Chiesa. Possiamo vederli considerando le ragioni che verosimilmente portarono all’inserimento dell’episodio nel racconto giovanneo della Passione. Abbiamo detto della motivazione personale dell’evangelista, che non poteva non vedere nell’affidamento della Vergine a sé e di sé alla Vergine un’occasione di autoesaltazione particolarmente seducente. Accanto a tale motivazione ve ne era però anche una teologica senz’altro importante. Nei primi tempi dell’età apostolica il carisma della Vergine, e quindi la sua venerazione, dovevano essere pressoché inesistenti, sicché possiamo pensare che agli evangelizzandi importasse ben poco sapere dove fosse Maria al momento della morte di Cristo. Ma negli ultimi decenni del secolo il nascente culto mariano, propiziato dalla progressiva diffusione dei “vangeli dell’infanzia”, reclamava almeno un accenno alla presenza della Madre accanto al Figlio sul luogo della sua immolazione. E allora, quale soluzione migliore che immaginarla protagonista in un episodio che legasse tale presenza a quella del discepolo che Gesù amava? In questo modo si otteneva un duplice risultato: si garantiva l’evento con l’autorità di un narratore di fatto autoqualificantesi come testimone oculare, e si dava soddisfazione alla smania di protagonismo del sedicente discepolo prediletto. Simili congetture non sono per nulla illegittime, non sono malevole arizigogolazioni di un miscredente: la situazione paradossale che i resoconti evangelici presentano relativamente al nostro problema impone di formulare ipotesi più plausibili della pura e semplice constatazione di un’unica testimonianza, da integrare meccanicamente nel tessuto dei sinottici (come di regola disinvoltamente si fa, in modo del tutto acritico, in quanto la questione, già si è detto, viene semplicemente ignorata). L’episodio dell’affidamento potrebbe anche essere nato come “mito eziologico” per spiegare l’effettiva convivenza della Vergine con l’apostolo, convivenza sostenuta da una tradizione assai ben radicata e di antichissima origine. In tal modo si sarebbe legittimato al massimo livello, attribuendolo a Gesù stesso, quell’affidamento che di fatto si era verificato sul piano biografico. S’intende che questa congettura non esclude la precedente. Ma, al di là di ogni ipotesi sull’origine dell’episodio giovanneo, sta di fatto che per la Chiesa, e quindi per l’apologetica, l’episodio che ci presenta Giovanni e la Vergine l’uno accanto all’altro ai piedi della croce è sempre stato alquanto imbarazzante. Ciò perché si vorrebbe valorizzare al massimo la presenza di Maria, per farla risultare il più possibile meritoria; ma Giovanni con la propria presenza ridimensiona tutto, facendo inoltre apparire inescusabile la latitanza degli altri apostoli, e di Pietro in particolare. In altri termini, la testimonianza del quarto evangelista è preziosa in quanto assicura l’indispensabile presenza di Maria, ma crea al tempo stesso problemi in quanto attesta la presenza di Giovanni. Se infatti i discepoli, a differenza delle donne, potevano pensare di rischiare qualcosa stando accanto al Maestro crocifisso, è chiaro che la presenza di Giovanni è obiettivamente molto più “coraggiosa”, e quindi significativa, di quella della Vergine. Per una madre, essere presente alla crocifissione del figlio innocente è da considerarsi, condizioni psicofisiche permettendo, cosa normale. Sicché risulta difficile enfatizzare l’ “eroica” presenza di Maria senza esaltare indirettamente quella semmai assai più eroica di Giovanni. D’altra parte, sappiamo, la presenza dell’apostolo è indispensabile per garantire quella della Vergine, che viene menzionata dall’apostolo stesso, e per di più in un episodio in cui i due figurano associati. Di fatto, comunque, accade che da parte della catechesi la presenza del discepolo, rispetto a quella di Maria, viene ricordata una volta contro cento, e senza attribuirle alcun valore particolare. Lo si fa comparire per introdurre Maria e poi si cerca di farlo subito scomparire. Vale la pena di approfondire il discorso parlando dei risvolti teologici dell’ “affidamento”. POSTILLA TEOLOGICA Maria e Giovanni, dunque, verosimilmente non si trovavano sul Calvario; ma, posto che ci fossero, come sostiene la Chiesa, accanto ai problemi di cui si è detto, e che la catechesi e l’apologetica vedono ma fingono di non vedere, vi sono altre importanti ricadute negative sul piano teologico, ricadute che di regola vengono pure ignorate. 1) Se Maria, con l’affidamento di Giovanni e a Giovanni, viene costituita madre dei credenti (o, addirittura, di tutti gli uomini), appare quanto mai inopportuno, per non dire assurdo, che a fondare e simboleggiare la sua maternità universale sia il rapporto con un uomo qualificatissimo, referenziatissimo, specialissimo: speciale sia per il fatto stesso di trovarsi, unico tra gli apostoli, sul Calvario, sia per la qualifica - ribadita non a caso appena prima - di “discepolo che Gesù amava”, ossia di discepolo prediletto, discepolo modello. Il senso dell’affidamento sarebbe stato certamente più pieno se Gesù si fosse rivolto a tutti gli astanti dicendo loro: “Ecco, questa è vostra madre”. C’era il centurione a rappresentare i pagani; c’era il ladrone pentito a rappresentare i giudei; c’erano gli amici (le donne, vicine alla croce secondo il quarto vangelo) e i nemici (i soldati): ecco la maternità universale! Così, invece, non possiamo dedurre se non che Maria è madre di coloro che Gesù ama in modo particolare, dei discepoli esemplari di Gesù, di chi ama Gesù sino all’eroismo (come avrebbe fatto appunto Giovanni, posto che fosse sul Calvario). 2) Maria viene costituita madre della Chiesa (intendendo in questo caso la Chiesa soprattutto come istituzione, ossia come Chiesa gerarchica) secondo modalità che influiscono profondamente sul significato dell’evento, e sono accuratamente taciute dall’esegesi. La Chiesa, in questo momento delicatissimo in cui viene affidata a Maria, è rappresentata da Giovanni anziché da Pietro, suo capo istituzionale. Pietro viene escluso per colpa propria, ossia perché nel momento della prova, nel “momento della verità”, si è imboscato. Si ha un bel dire che il suo pianto dopo il canto del gallo e la conferma della missione sul lago di Tiberiade “cancellano” la macchia del rinnegamento; e che Gesù, come sappiamo, aveva pur esortato Pietro a corroborare nella fede i fratelli, una volta ravvedutosi. Anche senza considerare che Giovanni, come si è detto, sentendosi “corroborare” da Pietro, avrebbe potuto legittimamente ridergli in faccia, resta il fatto che Pietro si è trovato assente in un momento decisivo per la storia della Chiesa; e questo è un fatto irreversibile. È un po’ come se avesse perduto la primogenitura, come già era capitato ad Esaù; e, come nel caso di Esaù, si tratta di una perdita irrimediabile: il privilegio – ovvero, nel nostro caso, il ruolo di “primo figlio adottivo di Maria” - è stato conferito irrevocabilmente a qualcun altro. Quando Pietro avrà ritrovato la fede, sarà, sotto questo aspetto, troppo tardi. Sicché il legame che unisce Pietro alla Madre del Signore non potrà mai essere un legame privilegiato. In termini attuali: il Papa non deve considerarsi titolare di un rapporto privilegiato con Maria. Qualcun altro ha con la Madre della Chiesa un legame più intimo del successore di Pietro. Si può coglierne una conferma clamorosa nei veggenti a cui la Madonna ripetutamente affida messaggi per il Papa con le opportune istruzioni. Si potrebbe dire che con l’ “affidamento” Gesù stesso ha consacrato e benedetto il potere carismatico - destinato ad affiancarsi al potere sacerdotale - e ne ha investito Giovanni, come a suo tempo aveva investito Pietro del ruolo di guida della Chiesa. Così Giovanni fa l’en plein: non solo è il discepolo prediletto di Gesù, il “discepolo che Gesù amava”, ma diviene anche il figlio prediletto di Maria, una sorta di “primogenito di molti fratelli”, designato personalmente da Gesù stesso, il “primogenito” per natura e per definizione. Giovanni diviene il rappresentante della Chiesa nei rapporti con la madre, in barba al “primato di Pietro”. E nessuno può avere alcunché da obiettare, sia perché la designazione è appunto opera di Gesù medesimo, sia perché, quando il ruolo prestigioso viene conferito, Pietro risulta colpevolmente assente. È questo un momento forte (pressoché ignorato dall’esegesi, ripetiamo) dello svuotamento sostanziale, da parte dell’opera giovannea, di quel primato gerarchico petrino che formalmente essa riconosce ed ossequia. Certo, si potrà dire che la giovane età di Giovanni lo predisponeva più di Pietro alla figliolanza adottiva nei confronti di Maria. Ma con questo ci si porta sul piano biografico dell’affidamento materiale, negando di fatto quella maternità universale di Maria che la Chiesa da otto o nove secoli vede chiaramente significata dall’ “affidamento” del Calvario, in contrasto con quanto avevano visto i grandi Padri. Quand’è così, il discorso è chiuso in partenza. S’intende che tutto questo lo troviamo solo in quel quarto vangelo che è opera, se non di Giovanni, certo della sua scuola. Ma questo è un altro discorso, su cui non intendiamo ritornare. Chiunque abbia scritto queste cose, il credente deve prenderle per oro colato, senza indulgere a sospetti. Fan parte del “depositum fidei”. 3) Se l’affidamento di Giovanni a Maria significava la designazione di quest’ultima a madre della Chiesa nascente, è letteralmente incredibile che nella Chiesa stessa per più di mille anni nessuno se ne sia accorto (a parte un’intuizione di Origene, occorre giungere allo scorcio dell’XI secolo per trovare un superamento della tesi patristica dell’ “affidamento familiare”). E si badi che, secondo quanto ci dicono gli “Atti degli Apostoli”, affidati e affidataria - ossia da un lato Pietro e Giovanni stesso con tutti gli apostoli, dall’altro Maria - vivevano e collaboravano gomito a gomito nella Chiesa nascente. E tutti avevano vissuto a stretto contatto con Gesù, per cui dovevano saper interpretare il suo pensiero. E neppure la venuta dello Spirito Santo a Pentecoste ha chiarito alla Chiesa le idee su un punto così importante, direi addirittura decisivo per la Chiesa stessa! Mistero grande. 4) La giustificazione che si suole addurre per spiegare il termine “Donna” con cui Cristo si rivolge alla madre è la volontà di tenere separata la sfera degli affetti domestici da quella del ministero pubblico e dell’azione redentiva. Ma, anche non considerando la stranezza di una simile scelta da parte di chi si rivolge al Padre dei cieli con un “abbà” (‘paparino’; e il tono affettuoso è enfatizzato al massimo dall’esegesi devota), nell’episodio del Calvario la giustificazione addotta dall’apologetica non è solo poco convincente: è addirittura assurda, aberrante. Se c’è infatti un’occasione in cui l’appellativo di ‘madre’ per Maria sarebbe stato quanto mai opportuno, se non addirittura necessario, è proprio questa. Qualora infatti Gesù avesse detto ”Madre, ecco tuo figlio”, avrebbe mirabilmente espresso in una formula potentemente sintetica che quella che era sua madre diventava da quel momento madre del discepolo e, attraverso questi, di tutti gli uomini; che egli donava, cioè, la propria madre a tutti i figli di Dio. Naturalmente, se Giovanni avesse scritto proprio così, oggi l’esegesi si premurerebbe di sottolineare il profondo significato della scelta di “madre” in luogo di “donna”. Ma sfortunatamente Giovanni non ha scritto così; e allora esegesi e apologetica devono arrampicarsi sugli specchi per dimostrare che “donna” non implica distacco, ed è anzi altamente significativo sotto il profilo teologico, in quanto richiamante il cosiddetto “protovangelo” (Gn 3, 15: “io porrò inimicizia tra te e la donna”), la “donna vestita di sole” di Ap 12, 1, nonché l’episodio di Cana (il che ovviamente è tautologico, poiché bisognerebbe dimostrare che anche in quella occasione “donna” fosse l’appellativo più indicato). Viva la sincerità del Montfort, che ha il coraggio di scrivere, proprio nel “Trattato della vera devozione a Maria” (§ 5): “Maria è la madre mirabile del Figlio, il quale prese piacere ad umiliarla e nasconderla nel corso della vita per assecondarne l’umiltà trattandola con il nome di donna, quasi fosse un’estranea [sic!], quantunque in cuor suo la stimasse e l’amasse più di tutti gli Angeli e gli uomini” . Ciascuno decida quanto sia plausibile la tesi che l’atteggiamento di Gesù fosse ispirato dal desiderio di compiacere l’umiltà di Maria (ma si sarebbe forse ferita tale umiltà chiamando madre la madre?); resta il fatto che l’autore riconosce onestamente – con parole che però anche i suoi massimi estimatori non citano mai! - quello che qualunque lettore avverte e che l’apologetica si sforza in ogni modo di negare, ossia che il termine usato dal Figlio esprime una estraneità e una freddezza glaciali, tanto da risultare obiettivamente “umiliante”. Va poi precisato che il richiamo alla “donna” di Gn 3,15 - a parte ogni questione di merito (là la donna è Eva, non Maria), su cui qui non è il caso di entrare (V. su questo “Gn 3, 15: il cosiddetto "protovangelo"”) - è totalmente privo di fondamento sotto il profilo filologico, perché il termine ha valore completamente diverso a seconda che sia usato come allocutivo (ossia come vocativo) oppure con valenza di pura denotazione in una frase enunciativa. La valenza connotativa (esprimente in primo luogo estraneità, formalità, con sfumature che possono andare dal rispetto fino a una presa di distanza ostile) l’ha soltanto quando, come nel nostro caso, è usato in funzione di allocutivo. Ed è precisamente lo stesso uso che Gesù ne fa tutte le volte che si rivolge a una donna, ossia - oltre che con la Maddalena - con la “donna cananea”, con la "donna curva" e – si badi! - con due peccatrici quali la Samaritana e l’Adultera. In altri termini: rivolgendosi alla madre usa lo stesso termine che usa con tutte le altre donne, mettendola sul loro stesso piano e trattandola quindi come un’estranea, proprio come ha lucidamente e coraggiosamente visto il Montfort. Comunque sia, in Gn 3, 15, come del resto in tutto l’episodio dell’Eden, “donna” non viene mai usato come allocutivo, sicché manca anche qualsiasi aggancio pretestuoso per sostenere la tesi di un’allusione a quel testo (e in ogni caso, se anche Dio l’avesse usato come allocutivo, avrebbe potuto farlo solo per rivolgersi a Eva peccatrice, sicché non se ne potrebbe certo dedurre una connotazione di affetto e tenerezza). Nel discorso referenziale poi, in frasi enunciative, “donna”, quando non sia usato come titolo nobiliare seguito dal nome proprio (ad es. “Donna Claudia”), può solo avere valore puramente denotativo, senza connotazione alcuna, in quanto termine pressoché obbligato per indicare l’essere umano adulto di sesso femminile. Concludendo: nell’episodio del Calvario, usare “madre” non avrebbe affatto significato aprire in modo inopportuno una sorta di siparietto domestico; ma, al contrario, avrebbe costituito una formidabile sottolineatura del significato teologico dell’episodio stesso; significato che, ci si assicura, consiste appunto in un trasferimento – o, meglio, in un’estensione - a tutti gli uomini, o quanto meno a tutti i credenti, della maternità di Maria. [1] 5) Da ultimo, non sarà forse inutile ricordare, anche se non è questa la sede per approfondire il tema, che la presenza di Maria sul Calvario, di incalcolabile significato per la mariologia, e per la teologia in generale, è in realtà una presenza muta e inattiva: Maria non fa nulla, non dice nulla e non pensa nulla (ovviamente nel senso che non viene riferito alcun suo pensiero). Ma da questo nulla la pietà popolare e la speculazione teologica han saputo cavare tesori inestimabili. Su questo nulla hanno costruito un castello meraviglioso. [1] Ne “L’affidamento a Maria” padre Livio osserva che “in poche righe è ripetuta per ben cinque volte la parola ‘madre’: ‘Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre, e lì accanto il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio!" Poi disse al discepolo: "Ecco la tua madre!"” Non si sa se stupirsi per l’ingenuità di una simile considerazione o irritarsi per la sua impudenza. È evidente infatti che, usato in frasi enunciative, “madre”, al pari di “donna”, ha valore puramente denotativo. Potremmo immaginare un contesto di questo tipo (per evidenti ragioni di registro usiamo “mamma” in luogo di “madre”): “C’erano nel parco la mamma di Luigino, la sorella di sua mamma e la nonna Maria. Allora Luigino, vedendo la mamma, e lì accanto il cuginetto, disse alla mamma: ‘Donna, da’ a lui la mia merenda!’” Forse che l’iterazione del termine “mamma” sottolinea il significato della maternità? Si tratta semplicemente di un periodo pesante, quale è appunto quello del quarto vangelo; periodo che si sarebbe potuto alleggerire usando un pronome (i pronomi servono appunto ad evitare le ripetizioni); o, meglio ancora, scambiando ‘donna’ con l’ultimo dei cinque ‘madre’: “Gesù allora, vedendo la madre, e lì accanto il discepolo che egli amava, disse alla donna: ‘Madre, ecco il tuo figlio!’” Questa sarebbe stata una soluzione senz’altro più conforme al normale uso linguistico e atta ad esprimere almeno un minimo di affetto filiale. |
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