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La Sacra Famiglia Il cristianesimo ha sempre sottolineato l’importanza centrale della famiglia come cellula dell’organizzazione sociale e come “piccola chiesa domestica”, in cui si compie la prima, insostituibile opera di educazione e di evangelizzazione. Logico quindi che, dovendo proporre ai fedeli un modello di famiglia cristiana, abbia sin dalle origini esaltato l’eccellenza insuperabile della Sacra Famiglia di Nazaret. Vediamo se e quanto sia giustificato tale atteggiamento esaminando prima i rapporti tra i coniugi, poi quelli tra i genitori e il figlio. I rapporti tra i due sposi È indubbio che il matrimonio tra Maria e Giuseppe, definito “vero matrimonio” dalla tradizione costante della Chiesa, ha caratteristiche alquanto singolari. 1) Colpisce innanzitutto il fatto che esso contraddice in modo clamoroso la definizione che dell’istituto matrimoniale danno concordemente l’Antico e il Nuovo Testamento. Contrariamente infatti alla definizione di Gn 2, 24 (“i due saranno una sola carne”), ribadita da Gesù stesso (Mt 19, 5), si afferma che questo matrimonio è tanto più vero in quanto è un puro accordo di anime, senza alcuna unione di “carne”. E non si considera che puro accordo di anime potrebbe essere anche un sodalizio di due persone del medesimo sesso, magari addirittura di tendenze non ortodosse (con rinuncia all’esercizio della sessualità, s’intende, per rispettare l’analogia col caso dei due di Nazaret); tanto che – si perdoni l’ipotesi avanzata a scopo puramente dialettico – si dovrebbe allora ritenere che si sarebbe trattato di vero matrimonio anche se Giuseppe avesse avuto tendenze omosessuali. Rispondendo alla domanda di un ascoltatore di Radio Maria, A. M. Tentori ha detto che il matrimonio cristiano dà a ciascun coniuge un diritto sul corpo dell’altro, ma ciò non impedisce che i due possano rinunciare a valersene, come fecero appunto Maria e Giuseppe. Spiegazione inaccettabile, perché i testi biblici non parlano affatto di un diritto, bensì di un fatto, ossia dell’unione della carne; unione che nel caso dei due di Nazaret non vi fu. Ciò trova un’inoppugnabile conferma nel fatto che la Chiesa stessa considera invalido – e quindi può dichiarare nullo, come se non fosse mai avvenuto – il matrimonio non consumato. Eppure in tali casi è chiaro che il “diritto” reciproco è stato concesso, in quanto il matrimonio è “rato”; ma il mancato esercizio di tale diritto rende di fatto il vincolo matrimoniale, per la Chiesa stessa, insussistente. Inoltre, il comune proposito di assoluta castità che si attribuisce a Maria e a Giuseppe deve averli portati a stringere un patto di rinuncia preventiva a tale diritto, e quindi in pratica alla cancellazione del diritto stesso (pena la violazione del patto). Altrimenti avrebbe dovuto esservi una continua tensione: la “rinuncia” a far valere il proprio diritto avrebbe dovuto venire rinnovata ogni giorno. 2) Dal progetto matrimoniale di Maria e Giuseppe era per forza di cose escluso anche quell’elemento che nell’altro racconto della creazione (quello del primo capitolo della Genesi) viene presentato come fondante nel rapporto tra uomo e donna, ossia la procreazione: “maschio e femmina li creò”, dice la Scrittura, e il primo comandamento che viene dato alla coppia, la prima parola in assoluto che Dio rivolge alle sue creature è proprio questa: “Siate fecondi e moltiplicatevi”. In tal modo alla coppia di Nazaret veniva a mancare anche ciò che, assieme alla fusione dei cuori, caratterizza secondo san Tommaso il matrimonio: l’educazione dei figli. E anche quando comparve sulla scena il bambino non programmato, il compito educativo (di un figlio solo, tra l’altro) fu senza dubbio meno oneroso del normale, date le caratteristiche particolarissime di un rampollo che a dodici anni mostrava di saper già dare lezioni di alta teologia agli smarriti genitori. 3) Il rapporto tra i due sposi è caratterizzato da una singolare assenza di comunicazione, come appare chiaramente dalle vicende, narrate da Matteo e da Luca, che spingono Giuseppe a meditare di “licenziare” la sposa perché incinta di un figlio di cui egli sa di non essere il padre. 4) In ogni caso, il fatto che il matrimonio fosse stato combinato dalle famiglie esclude, data anche la giovanissima età della fanciulla, che potesse fondarsi su una reale conoscenza e una reale attrazione reciproca; in altre parole, che fosse quello che si definisce un matrimonio d’amore. Si può fantasticare fin che si vuole e dire che il capofamiglia scegliendo Giuseppe aveva scelto bene, che Maria provava una segreta simpatia per il suo sposo, e quant’altro ci piacerà immaginare; ma è un fatto inoppugnabile, ripetiamo, che non poteva certo trattarsi di un matrimonio d’amore, comunque si voglia poi intendere questo amore. Tutto ciò è indubbiamente dovuto a fattori storico-ambientali: questi erano gli usi del tempo, in Palestina. Ma resta il fatto che è impossibile vedere in un matrimonio del genere un modello insuperabile e universalmente valido. 5) Allo stesso modo, serve a poco obiettare che la funzione specialissima dei genitori del Verbo incarnato rendeva necessarie condizioni particolari e quindi “anomale”. Questo si può senz’altro concedere. Ma allora, coerentemente, si deve rinunciare a presentare la Sacra Famiglia come modello ideale di famiglia cristiana. Dove vige il principio di singolarità, in nome del quale si affermano eccezioni e privilegi d’ogni genere, non può valere il principio di esemplarità. Considerando le cose un po’ più da vicino: che valore di esemplarità può avere una convivenza in regime di matrimonio da cui la problematica sessuale è rigorosamente e pregiudizialmente esclusa? Frustrazioni, insoddisfazioni, tentazioni, gelosia, insofferenze e incompatibilità di varia natura, tutto ciò insomma che rappresenta la patologia della sessualità nel matrimonio (con ricadute spesso pesantissime su tutti gli altri aspetti della vita di coppia), è, per definizione, inesistente e impossibile nel caso di Maria e Giuseppe. Ma quando, a priori, si è posti al riparo da pericoli di questo genere, tutto diventa troppo facile. I rapporti tra i genitori e il figlio Sui rapporti tra Gesù e i genitori è quanto mai eloquente l’episodio del “Ritrovamento”, al quale quindi rimandiamo. A parte comunque il contegno inqualificabile tenuto in quella circostanza, in tutti gli altri passi evangelici in cui si trova a parlare con la madre o della madre, Gesù ha un atteggiamento tale che l’esegesi e l’apologetica devono ogni volta mobilitarsi in modo massiccio per spiegare che tali passi non significano affatto ciò che sembrano significare. Esemplari a questo proposito alcuni contributi esegetici di Giovanni Paolo II: 1) nella “Redemptoris Mater” (§ 20), circa Lc 11, 27, leggiamo che “nonostante le apparenze” (sic), Gesù accoglie l’elogio completandolo con uno proprio (“Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”); 2) nella catechesi del 15.01.1997 si legge, a proposito di Gesù ritrovato nel tempio, che “Maria e Giuseppe non percepiscono il contenuto della sua risposta, né il modo, che sembra avere l’apparenza di un rifiuto”: 3) nella catechesi del 21.03 01, parlando del miracolo di Cana si afferma che Gesù accoglie la preghiera della Madre “pur nell’apparente distacco”. Conclusione: a chi legge senza prevenzioni i passi mariani dei vangeli “appare” sempre il contrario di quello che l’evangelista voleva dire! Sta di fatto che non c’è in tutto il Vangelo una sola parola o espressione di affetto di Gesù per Maria. In particolare, colpisce il termine “Donna” con cui il figlio adulto costantemente si rivolge alla madre. Grignion de Montfort ha l’onestà di riconoscere che si tratta di un termine poco affettuoso e gentile: “… prese piacere ad umiliarla [sic] e nasconderla nel corso della vita per assecondarne l’umiltà trattandola con il nome di donna, quasi fosse un’estranea [sic], quantunque in cuor suo la stimasse e l’amasse più di tutti gli Angeli e gli uomini” (“Trattato della vera devozione a Maria”, § 5). È detto benissimo: “quasi fosse un’estranea”. La tesi ufficiale dell’apologetica per giustificare questa glaciale freddezza è che Gesù non vuole intrusioni della dimensione privata in quella teologica, non vuole che il suo rapporto personale con la madre oscuri il ruolo di Maria cooperatrice della Redenzione. A. Rum, chiosatore del “Trattato” montfortiano, si affretta a smorzare l’arditezza dell’affermazione dell’autore informandoci che “nel nome ‘donna’ riferito a Maria gli esegeti vedono il ruolo che le è stato riservato nella storia della salvezza”. Si tratta di una giustificazione risibile. “Maternità divina”, “maternità verginale”, “maternità universale”, “Maria madre della Chiesa”, “Maria madre di tutte le grazie”: queste espressioni, e innumerevoli altre simili, ricorrono quasi ossessivamente nella dogmatica, nella catechesi e nell’omiletica mariane, nonché ovviamente nella liturgia (si pensi alle Litanie: “Mater purissisma”, “Mater boni consilii”, “Mater misericordiae” …). Il ruolo di Maria consiste principalmente nella maternità, anche sotto il profilo squisitamente teologico; Maria è l’emblema e l’archetipo della madre: madre di Dio e madre degli uomini. Madre, madre, madre la dicono e la invocano incessantemente i fedeli: tutti tranne Gesù, l’amatissimo figlio, il quale le si rivolge sempre con un deferentissimo “Donna”. Guarda caso, proprio quel Gesù di cui si enfatizza al massimo l’ “ardire” di rivolgersi al Padre onnipotente col familiarissimo termine di “abbà” (‘paparino’).* {*Per di più si sostiene, sia pure a torto (v. il “Voi dunque pregate così: Padre nostro …”; e il “Salgo al padre mio e padre vostro”, con precisa distinzione), che Gesù avrebbe usato tale termine per incoraggiare noi a rivolgerci a Dio nello stesso modo. A maggior ragione dunque avrebbe dovuto usare “madre” (o, meglio ancora, “mamma”) per rivolgersi a Maria, incoraggiando noi a fare altrettanto. O se ne deve dedurre che secondo Gesù noi dovremmo usare “Donna” per rivolgerci alla sua divina madre, come fa san Bernardo nella dantesca “preghiera alla Vergine”?
Da notare comunque l’assurdo per cui il Creatore dell’universo è per Gesù “abbà”, mentre la creatura che l’ha messo al mondo e l’ha allattato è “donna”. Il Montfort ha almeno avuto il coraggio di denunciare il tono scostante che una simile scelta tradisce.}
Si sa che in “Donna” l’esegesi devota pretende di vedere un richiamo al cosiddetto “protovangelo” (Gn 3, 15) e alla “donna vestita di sole” del cap. 12 dell’Apocalisse. Non è questa la sede per dimostrare l’arbitrarietà di tali accostamenti; ma resta incontrovertibile che “donna” è l’unico termine che Gesù poteva usare, una volta scartati “madre” e, ovviamente, “mamma” (d’una familiarità sconveniente!). A meno di ricorrere a ghennéteira, o tekûsa (‘genitrice’), o simili. Sta di fatto che “donna” è precisamente lo stesso identico termine che Gesù usa per rivolgersi – oltre che alla Maddalena, alla “donna cananea” di Mt 15, 28 e alla “donna curva” di Lc 13, 12 - alla Samaritana (Gv 4, 21) e all’Adultera (Gv 8, 10), due sconosciute di cattivi costumi. Per la madre dilettissima non è riuscito a trovare niente di meglio. Théologie oblige. N. B. 1. Naturalmente l’onestà e il coraggio del Montfort risultano ridimensionati se si considera che egli ammette, sì, l’estrema freddezza del tono usato da Gesù con la madre, ma solo in quanto ritiene di aver trovato, pionieristicamente, una spiegazione edificante: il desiderio di Maria di venire umiliata e il desiderio del Figlio di compiacerla umiliandola (e in effetti Gesù di umiliarla non perde mai l’occasione, sia quando parla con lei - nel “Ritrovamento”, a Cana -, sia quando parla di lei, v. i passi “antimariani”). Montfort si comporta in sostanza come tutti quegli autori che, ritenendo di avere una tesi apologetica nuova da presentare, buttano coraggiosamente a mare quelle tradizionali. Noi prendiamo atto dell’ammissione (sacrosanta!); ma, quanto alla “spiegazione”, preferiamo ovviamente tutt’altri argomenti. Anche perché, mentre “donna” è scritto nero su bianco nei testi evangelici, la pia spiegazione del Montfort è puramente congetturale. N. B. 2. Dal punto di vista tecnico, ossia linguistico, l’argomento fondamentale che priva di ogni legittimità la pretesa dell’esegesi devota è la radicale distinzione che va fatta tra l’uso referenziale, ossia enunciativo, di “donna” e l’uso allocutivo (quello che si ha quando il termine figura come vocativo, in un discorso diretto). La connotazione di estraneità sussiste infatti solo nel secondo caso. Su questo tema v. anche “Gn 3, 15: il cosiddetto "protovangelo"”, nella sezione “Altri temi mariani” di “Studi linguistici”, e soprattutto “L’asserita presenza di Maria sul Calvario”, ne “I racconti della Passione”. Per quanto riguarda l’educazione del fanciullo, come già si è accennato, non occorre dilungarsi sul fatto che lo status eccezionale di Gesù, vero Dio e vero uomo, rende problematico attribuire compiti e meriti ai suoi presunti educatori. In primo luogo va comunque ribadita la scarsa esemplarità (soprattutto per l’ideale cristiano di una famiglia numerosa) di una coppia che ha un figlio solo, con esclusione quindi di ogni dinamica di gruppo, fonte di arricchimento affettivo ma anche di problemi educativi. In secondo luogo, fa sorridere chi si impegna a dimostrare che Maria e Giuseppe trasmisero al figlio i più alti valori. Il figlio di Dio, che anche come uomo dimostra di essere perfettamente a conoscenza della sua condizione e della sua missione di riscatto dell’umanità dal peccato (tanto da aver inscenato, si arriva a sostenere, l’episodio del “Ritrovamento” per prefigurare gli eventi della propria immolazione), avrebbe avuto bisogno di venir formato ai valori! Altrimenti, dobbiamo pensare, chissà quali diabolici pseudovalori avrebbe interiorizzato. Siamo seri: poteva mai esserci per i due sposi di Nazaret il pericolo che il loro figliolo (che secondo molti teologi godeva fin dal concepimento della visione beatifica, ossia vedeva Dio “faccia a faccia”) frequentasse cattive compagnie, che si mettesse su una cattiva strada? O magari, per dirla in termini attuali, che cominciasse a bucarsi? Non parliamo poi del problema della figura paterna con cui il figlio dovrebbe misurarsi per avere un riferimento nella vita: è una figura che nell’unico episodio in cui ci viene presentata in rapporto dialettico col figlio appare sbiadita sino all’evanescenza. Peggio ancora se passiamo a considerazioni di tipo psicanalitico: il complesso di Edipo nel caso di Gesù manca addirittura della sua base “fisiologica”, ossia il rapporto sessuale tra il padre e la madre. Ancora: Maria soffrirà, come una vera madre, di fronte al fatto ineluttabile della crocifissione del figlio, che in quanto uomo patisce e muore. Ma fino a trent’anni e più questo figlio vive immune dai pericoli che gravavano sui suoi coetanei (si pensi alla speranza di vita che si aveva allora): lebbra o qualsiasi altro tipo di malattia infettiva, così come paralisi, cecità, sordità, mutismo e possessione demoniaca, in una parola il triste catalogo di infermità che vediamo sciorinato davanti al Messia taumaturgo, erano nel caso di Gesù pericoli inesistenti. E Maria, per quanto apprensiva potesse essere, doveva pur sapere, se non era sciocca, che almeno fino al compimento della missione divina per cui era stato concepito in modo tanto straordinario, quel figlio lei non rischiava di perderlo, a differenza di ogni madre di figlio mortale, che ha sempre – e più che mai doveva avere allora – il timore di perdere la sua creatura. Da tutto questo risulta evidente, sulla base degli elementi forniti dal Vangelo, che la Sacra Famiglia è, per mille e una ragione, troppo anomala per poter costituire un modello concreto di famiglia cristiana. È comunque un dato di fatto che dei rapporti tra i suoi membri la Scrittura non ci dice nulla; o meglio, non ci dice nulla di edificante. Gli scarni accenni che ci permettono di sbirciare nella “chiesa domestica” di Nazaret ci offrono, come si è detto, un quadro decisamente negativo. Si potrebbe dunque concludere che non era nel progetto del Cielo che noi conoscessimo tale realtà, per cui sarebbe saggio non abbandonarsi all’immaginazione. In ogni caso, è del tutto arbitrario fantasticare di una realtà idillica, quale ci offrono la devozione e le “vite” di Maria o di Giuseppe avute in rivelazione dalle mistiche. In particolare, è gratuito ripetere che Giuseppe rimase fedele alla sposa fino alla morte, che portò sino in fondo in maniera ineccepibile il suo compito di educatore e di protettore di Gesù, ecc. ecc. Non ne sappiamo nulla, assolutamente nulla. Pertanto, tutte le affermazioni di questo genere andrebbero precedute da un “Ci piace immaginare che …”. È il minimo che si possa pretendere, in nome dell’onestà intellettuale. |
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