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controapologetica
 
Thursday, 21 November 2024
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         La transustanziazione, miracoli e misteri

 

 

 

Premessa

 

Abbiamo accennato nel capitolo introduttivo alla profonda diversità, sia sul piano concettuale che su quello liturgico, tra la Cena del Signore dei protestanti e l’Eucaristia di cattolici e ortodossi. Su questo punto non intendiamo indugiare, essendo oggetto delle nostre considerazioni esclusivamente il sacramento cattolico.

Ci limitiamo a osservare che “transustanziazione” significa “passaggio da una sostanza ad un’altra”, “trasformazione, conversione di una sostanza in un’altra”; il termine indica cioè che una certa sostanza “diviene” qualcos’altro. Ora, in nessuna delle quattro versioni dell’istituzione dell’eucaristia che ci sono pervenute  (Matteo, Marco, Luca, Paolo) si trova la benché minima traccia di tale divenire.

 

Si badi che la scena in sé è dinamica. Gesù compie un rito, agisce: prende il pane, rende grazie, lo spezza e lo distribuisce ai discepoli; poi prende il calice, rende grazie e lo porge agli apostoli. A questo punto sarebbe naturale che egli esplicitasse la trasformazione avvenuta in virtù del rito compiuto, dichiarando apertis verbis che quel suo corpo è il pane divenuto corpo e quel suo sangue è il vino divenuto sangue.

Invece, niente di tutto ciò: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. Essere, non divenire. Certo, si dirà, ciò che è può essere divenuto ciò che ora è. Ma resta il fatto che in un contesto che naturalmente si presta a una sottolineatura del divenire, della trasformazione (che è la quintessenza della consacrazione eucaristica), al divenire non si accenna minimamente.

 

Ciò costituisce un forte argomento per sostenere un’interpretazione statica anziché dinamica della formula eucaristica, un’interpretazione cioè escludente ogni trasformazione.

Le parole di Gesù sembrano significare: “Questo è l’equivalente del mio corpo, rappresenta il mio corpo, è segno del mio corpo”. Col che la “presenza reale” lascerebbe il posto all’evocazione simbolica.

 

Detto questo, focalizziamo la nostra attenzione sulla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, che afferma proprio la “presenza reale” del Cristo nelle specie eucaristiche debitamente consacrate.

 

 

Dinamica della transustanziazione

 

Rifiutando ogni ipotesi di transfinalizzazione e di transignificazione (definite insufficienti da Paolo VI nella Mysterium fidei), il Magistero della Chiesa ritiene che la presenza reale di Cristo nell’eucaristia si attui attraverso un processo di “transustanziazione”, che il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica definisce così:

 

“Transustanziazione significa la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue. Questa conversione si attua nella preghiera eucaristica, mediante l'efficacia della parola di Cristo e dell'azione dello Spirito Santo. Tuttavia, le caratteristiche sensibili del pane e del vino, cioè le «specie eucaristiche», rimangono inalterate”.

 

È chiaro che siamo di fronte a un prodigio operato dalla potenza divina. Poiché però la fede cerca sempre, nei limiti del possibile, di rendere ragione dei propri contenuti (si parla di fides quaerens intellectum), nel corso dei secoli non sono mancati teologi che han cercato di esprimere la dinamica del sacramento in termini filosofici.

La massima autorità al riguardo è senz’altro san Tommaso d’Aquino, e a lui si ispirano pressoché tutte le interpretazioni conformi alla dottrina ufficiale della Chiesa (per questo noi citeremo spesso, oltre che dalla sua opera, da Cristianesimo. Corso di teologia cattolica di Enrico Zoffoli, autorevole teologo domenicano - al pari di Tommaso - e suo fedele interprete).

Ora, base filosofica della teologia di san Tommaso è l’opera di Aristotele, e aristotelica è la sua terminologia, di uso corrente peraltro in tutti gli autori della Scolastica. Si comprende così come l’interpretazione tomistica sia imperniata sulla contrapposizione dei concetti di “sostanza” e “accidente”.

 

Il Catechismo della Chiesa cattolica (= CCC) non entra nella problematica filosofica riguardante il sacramento, sicché non fa parola di “accidenti”: come abbiamo visto, le “caratteristiche sensibili del pane e del vino” vengono semplicemente etichettate come “specie”.

Noi ci proponiamo di mostrare che la dottrina eucaristica ufficiale della Chiesa (quale figura nel CCC e nel relativo “Compendio”, come già nel catechismo di san Pio X), mentre gabella gli accidenti per “specie”, ossia pure apparenze, comprende in realtà corollari di conclusioni a cui la speculazione filosofica è giunta ragionando proprio in termini di sostanza e accidente.

 

Per Aristotele, “accidente” significa, testualmente, “ciò che appartiene ad una cosa e che può essere affermato con verità della cosa, ma non sempre né per lo piú”.

In termini a noi più familiari, possiamo parlare di “determinazione o qualità che appartiene a un oggetto in modo fortuito senza rientrare nella sua definizione. Si contrappone ai concetti di sostanza e di essenza” (Treccani).

“Accidenti” sono dunque le proprietà di un ente che non appartengono alla sua essenza, ovvero alla sua sostanza (la quiddità degli Scolatici), ma gli competono in modo occasionale, sicché possono essere presenti o assenti senza che con questo muti l’essenza, e quindi la definizione, dell’ente di cui si parla.

 

Per fare un esempio attuale, l’automobile può essere definita “veicolo a quattro ruote, con motore generalmente a scoppio, per il trasporto su strada di un numero limitato di persone” (De Mauro).

Concretamente, un auto potrà poi essere bianca, a trazione integrale, munita di navigatore satellitare, e così via; ma tutte queste proprietà possono mancare o quanto meno variare (come avviene ad esempio nel caso del colore, dato che un colore deve in ogni caso esservi) senza compromettere il suo essere automobile. Diremo perciò che sono “proprietà accidentali” (anziché “sostanziali”; non rientrano nella definizione), ovvero, più semplicemente, “accidenti”.

 

Consideriamo ora il caso del pane e del vino impiegati per l’eucaristia. Il pane viene definito dal dizionario “alimento che si ottiene cuocendo al forno un impasto di acqua, farina di frumento (o di altri cereali), sale e lievito” (Sabatini Coletti).

Anche volendo considerare non necessariamente presenti il sale (così è ad esempio nel pane toscano) e il lievito (si ricordi il pane azzimo consumato degli Ebrei nella settimana pasquale), restano come “proprietà sostanziali” la cottura al forno e l’impasto di acqua e di farina di cereali (nel caso dell’ostia è poi tassativamente previsto l’impiego di frumento).

Ora, tali proprietà (che costituiscono la “sostanza” del pane), per quanto a noi è possibile constatare non si vanificano per effetto della consacrazione, ma permangono immutate. È illegittimo perciò affermare che nell’eucaristia tutta la sostanza del pane si trasforma nella sostanza del corpo di Cristo.

 

Analogo è il discorso da fare per il vino, definito dal dizionario “bevanda alcolica ottenuta dal mosto d'uva fatto fermentare”. Ciò significa che la natura di bevanda, l’avvenuta fermentazione, il tenore alcolico e la provenienza dall’uva sono proprietà necessariamente presenti perché quel liquido risponda alla definizione di “vino”.

Sono pertanto proprietà sostanziali, non accidenti (quali sono invece il colore, il profumo, il sapore), e nel loro insieme costituiscono la sostanza del vino. Ne consegue che solo quando si constati la loro assenza si può parlare di assenza di tale sostanza. Il che non è certo quel che accade nel caso del vino consacrato.

 

Per la Chiesa, “le specie o apparenze [si badi bene: viene confermato ufficialmente il significato di ‘apparenze’ per il termine “specie”] sono tutto ciò che cade sotto i sensi, come la figura, il colore, l’odore, il sapore del pane e del vino” (Catechismo di san Pio X, n. 330); a queste proprietà si aggiunge spesso la “dimensione”.

Si afferma dunque implicitamente che la sostanza non cade sotto i sensi; ma ciò è assurdo, poiché se così fosse noi non avremmo alcuna possibilità di distinguere una sostanza dall’altra.

 

È chiaro infatti che le nostre distinzioni e classificazioni si basano su proprietà in qualche modo constatabili, ossia percepibili dai nostri sensi. Che poi una certa polvere di un certo colore sembri essere a occhio nudo - così come al tatto, all’olfatto e al gusto - una sostanza diversa da quel che si rivela invece essere al microscopio o all’analisi di laboratorio, non cambia nulla: esame microscopico e analisi chimico-fisiche non sono che potenziamenti della nostra capacità di percezione, alla quale in definitiva viene demandato il giudizio.

Le nostre capacità percettive sono dunque alla base della nostra valutazione e distinzione sia delle sostanze che degli accidenti. Se così non fosse, ripetiamo, la sostanza si ridurrebbe a un’astrazione concettuale, senza alcuna relazione con le modalità specifiche della sua manifestazione. La sostanza dello zucchero non si distinguerebbe da quella del sale.

 

Come abbiamo visto, dunque, per la dottrina ufficiale della Chiesa a livello catechistico le manifestazioni sensibili del pane e del vino assunti dal celebrante nell’eucaristia di fatto non sono che apparenze”, poiché in realtà nell’ostia e nel calice vi sono il corpo e il sangue di Cristo; in pratica, saremmo dunque di fronte a un’illusione, a un inganno, sia pure ineffabilmente sublime. In ciò consiste, sembrerebbe quindi di poter concludere, il miracolo eucaristico.

Senonché, ecco il punto, la riflessione teologica, chiamata a precisare lo statuto delle sostanze coinvolte nel processo, nega che vi sia alcunché di ingannevole nella dinamica della transustanziazione: le proprietà percepibili del pane e del vino (colore, sapore, odore, consistenza …), anziché essere pure “apparenze”, vengono definite veri e propri “accidenti”.

Il miracolo consiste allora nel fatto che tali accidenti sussistono pur essendo venute a mancare le rispettive sostanze: “uno straordinario intervento divino … può consentire alle proprietà del pane [e del vino] di esistere egualmente senza la medesima [sostanza]” (Zoffoli, n. 728).

 

La teologia tomistica si premura inoltre di precisare che gli accidenti superstiti del pane e del vino “non ineriscono” alla nuove sostanze. Dopo la consacrazione vi sarebbero cioè sull’altare le sostanze del corpo e del sangue di Gesù senza i propri accidenti, e gli accidenti del pane e del vino senza le rispettive sostanze.

 

A nostro giudizio, ciò è inaccettabile sotto il profilo logico, in quanto, contraddicendo lo statuto stesso di sostanza e accidente, configura una “impossibilità concettuale” contro cui anche l’onnipotenza di Dio non può nulla.

Non vi possono essere accidenti (ossia proprietà accidentali) se non vi è una sostanza (ossia l’insieme delle proprietà sostanziali) che ne costituisca il supporto.  Affermare il contrario è intrinsecamente contraddittorio, costituisce cioè una contraddizione in termini, in quanto, giova ripetere, smentisce le definizioni stesse di sostanza e di accidente.

 

Nota

Ci pare opportuno indugiare, per un approfondimento, su quello che è forse l’aspetto più propriamente filosofico della problematica riguardante la transustanziazione: il problema della permanenza degli “accidenti” rimasti “senza soggetto”, rimasti cioè privi delle rispettive sostanze, sostituite da quelle del corpo e del sangue di Cristo. Ci permettiamo di farlo, pur se si tratta di materia probabilmente poco allettante per la sua astrusità, perché ci pare che questo sia in fondo il cuore del problema.

 

Jean-Hervé Nicolas, nella sua ponderosa Sintesi dogmatica pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana, scrive:

“Poiché è Dio stesso che dà l’essere agli accidenti mediante substantia, non è contraddittorio che essi continuino a ricevere l’essere da Dio, anche quando la sostanza non c’è più. Dio infatti è la ragione ultima e sufficiente del dono dell’essere” (§ 890). E basandosi su quanto argomenta san Tommaso (S.Th., III, q. 77), secondo il quale la causa prima, cioè Dio, può fare da sola e immediatamente  tutto quel che fa la causa seconda, ossia le leggi naturali, conclude che quanto meno “non si potrà provare che la cosa sia impossibile”.

Infine, per dare un ragguaglio sugli sviluppi moderni della questione, cita due teologi che a metà del Novecento l’hanno affrontata partendo da presupposti diversi: F. Selvaggi e C. Colombo.

Noi possiamo sintetizzare le posizioni dei due autori con le parole di Cosimo Scordato (Il settenario sacramentale, ediz. Il Pozzo di Giacobbe, vol. II, § 443; corsivi nostri):

 “Selvaggi pensava che la transustanziazione, in quanto conversione ontologica, riguardasse realtà fisicamente individuabili, e come tale comportasse una mutazione fisica; Colombo, invece, pur riaffermando che la transustanziazione è una mutazione ontologica, sosteneva che le realtà interessate alla conversione eucaristica sono di ordine metafisico. Questa posizione sembrò mettere in pericolo la natura ontologica della conversione eucaristica, quasi ad orientare verso un’interpretazione puramente ‘simbolica’ della transustanziazione.”

 

Ciò che a noi interessa in queste parole è il fatto che sostenere la presenza reale del Cristo nell’ostia mentre permangono gli accidenti del pane privi ciascuno della propria sostanza porta a misconoscere la realtà fisica del pane stesso, a sostituire la fisica con la metafisica e quindi a vanificare di fatto la presenza reale in favore di “un’interpretazione puramente ‘simbolica’ della transustanziazione.” 

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Giunti a questo punto, ci pare che il problema di fondo possa essere così formulato: da un lato vi è l’idea che il fenomeno della transustanziazione vada interpretato in termini di sostanza e accidenti; dall’altro si stravolge il senso della distinzione tra i due concetti, giungendo  a un’indebita identificazione delle specie eucaristiche con i loro “accidenti”.

È dunque fuori luogo sostenere che dopo la consacrazione sono presenti sull’altare le sostanze del corpo e del sangue di Cristo e gli accidenti del pane e del vino, i quali però “non ineriscono” a quelle sostanze. Come si è visto, ai nostri sensi (all’occorrenza potenziati dall’uso di microscopi o di altre analisi di laboratorio) le proprietà sostanziali del pane e del vino risultano presenti quanto lo erano prima della consacrazione. Risultano presenti, ad esempio, le proteine vegetali della farina (anziché quelle animali proprie del corpo umano); e la farina, abbiamo visto, non rientra fra gli “accidenti” del pane.    

 

Quel che si dovrebbe invece avere il coraggio di affermare è che del pane e del vino permangono solo le “specie”, ovvero le pure apparenze, apparenze ingannevoli, e non gli accidenti, che è pertanto abusivo definire come “apparenze che rivelano la natura della sostanza” (Zoffoli).

 

 

Il doppio miracolo e il miracolo mancato

 

In ogni caso (sia cioè che si interpretino le “sacre specie” come pure apparenze, sia che le si consideri accidenti, ossia reali proprietà del pane e del vino sopravvissute alla scomparsa delle rispettive sostanze), si deve concludere che per la Chiesa la transustanziazione ci si presenta come un doppio miracolo: la sostanza del corpo e quella del sangue di Cristo subentrano prodigiosamente a quelle del pane e del vino, ma allo stesso tempo, altrettanto prodigiosamente, esse continuano a venir percepite dai nostri sensi come pane e come vino.

I due miracoli per così dire si elidono, sicché noi non percepiamo nulla della trasformazione avvenuta. Ce lo conferma lo stesso Zoffoli: “le tipiche manifestazioni delle due sostanze [ossia del pane e del vino] si verificano ancora come se non fosse stato operato nessun prodigio” (n. 729).

 

Di qui una singolare conseguenza: i miracoli eucaristici, nei quali si ha ad esempio sanguinazione dell’ostia, come nel caso famoso di Bolsena, sono in realtà miracoli mancati, ovvero riusciti solo a metà. Quello che dovrebbe essere un doppio miracolo si realizza solo parzialmente: il pane e il vino si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo (e questo è il primo miracolo), ma, anziché continuare ad apparire come pane e come vino (il che cosituirebbe il secondo miracolo), assumono l’aspetto delle nuove sostanze in cui si sono trasformati.

Paradossalmente, quindi, si deve concludere che in occasione dei miracoli eucaristici qualcosa va storto; la situazione richiama quella che si ha quando il prestigiatore commette uno sbaglio e in tal modo consente agli spettatori di vedere il trucco.

Va da sé che per l’apologetica siamo in presenza di un intervento straordinario di Dio vòlto a produrre un prodigio a scopo di edificazione. Ma resta il fatto che la paradossale tesi della défaillance è logicamente e teologicamente ineccepibile: il Dio che vuole strafare, facendo due miracoli alla volta, quando vuole mostrare la propria potenza di miracolo è costretto a “sbagliare” qualcosa per renderla percepibile.

 

 

Perché “accidenti” anziché “specie”?

 

A questo punto possiamo chiederci: che cosa guadagna la teologia sostenendo, contro la logica della definizione stessa di sostanza e accidente, la permanenza degli accidenti del pane e del vino anziché ammettere che pane e vino hanno la semplice funzione di specie, ossia apparenze ingannevoli di sostanze che sono state sostituite da altre, le quali dovrebbero quindi essere presenti ora con i loro propri accidenti (ad esempio, con un determinato gruppo sanguigno)?

In altri termini: se l’onnipotenza di Dio può fare il doppio miracolo di cui si è detto (e potrebbe farne indifferentemente uno triplo o quadruplo o quintuplo, moltiplicando i prodigi come l’acrobata circense moltiplica i salti mortali), perché sostenere il persistere delle proprietà (anche “sostanziali”) del pane e del vino qualificandole come specie, ossia pure apparenze, ma di fatto considerandole scorrettamente come accidenti?

 

La risposta non ci pare difficile. Parlare di pane e vino in qualche modo presenti realmente (sia pure come accidenti) anziché come pure illusorie apparenze permette al teologo di risolvere alcuni importanti problemi legati alla transustanziazione.

In primo luogo, il problema della localizzazione del corpo e del sangue di Cristo. La miracolosa permanenza di certe proprietà fisiche del pane e del vino, gabellate per accidenti di sostanze ormai scomparse, consente di dire dove si trovano in ogni momento quel corpo e quel sangue: “in virtù delle dimensioni proprie del pane e del vino – che ovviamente occupano un certo luogo -, il Corpo di Cristo resta ‘localizzato’, ossia è qui e , può trasferirsi da un punto all’altro dello spazio” (e ciò pur potendo, al tempo stesso, “trovarsi in tanti luoghi quante sono le distinte-dimensioni di più ostie consacrate”) (Zoffoli, n. 729).

E ancora: “La presenza [del corpo e del sangue] … è favorita dalla persistenza delle naturali proprietà del pane e del vino, che situano il Cristo nello spazio e nel tempo, come altrimenti non sarebbe stato possibile” (n. 724).

 

In secondo luogo, la tesi che considera realmente presenti tali proprietà permette di spiegare la fenomenologia biochimica del pane e del vino, dal comportamento nelle prove di laboratorio alla metabolizzazione nel corpo umano, che non rivelano alcuna differenza rispetto a quel che avviene al pane e al vino non consacrati.

 

In terzo luogo, tale tesi consente di esorcizzare l’angosciante prospettiva di una possibile profanazione: “tutto ciò che d’indegno, strano ed orribile può concepirsi lascia inalterato il Cristo, perché gli accidenti del pane e del vino (ai quali unicamente [la profanazione] si riferisce) non sono propri del Corpo e del Sangue di Lui, che perciò non è raggiunto da nulla di quanto accade nel mondo fisico” (Zoffoli 730).

Se pane e vino fossero semplici apparenze ingannevoli, ci pare di poter dedurre, le ingiurie ad essi arrecate colpirebbero la realtà che nascondono, ossia il corpo e il sangue di Cristo; se invece sono proprietà, sia pure accidentali, delle sostanze, sono queste che risultano colpite dall’atto sacrilego.

 

A questo riguardo sorge però un problema, poiché la giustificazione addotta da Zoffoli stranamente non vale per il caso di un deterioramento per così dire fisiologico del pane e del vino, in assenza di qualsiasi intento dissacratorio. Si afferma infatti concordemente che le ostie ed il vino consacrati conservano la loro propietà sacramentali solo finché si conservano fisicamente integre, non toccate dalla corruzione. Ad esempio, le ostie non sono più tali quando ingialliscono o si coprono di muffa, così come il vino quando inacidisce, avviandosi a diventare aceto.

 

Questo risponde certo a un’esigenza di autenticità e di purezza, condizioni che si avvertono necessarie per veicolare degnamente quanto di più santo si può concepire al mondo. Ma, sulla base di quanto si è fin qui detto, è difficile darne una giustificazione teologica.

Se infatti le proprietà sensibili del pane e del vino, pur non essendo semplici “specie”, sono accidenti prodigiosamente sopravvissuti alla scomparsa delle rispettive sostanze, ma che “non ineriscono” alle nuove sostanze del corpo e del sangue di Cristo; non si vede allora perché mai la loro corruzione dovrebbe compromettere la purezza di quel corpo e di quel sangue, con i quali hanno un rapporto del tutto estrinseco.

 

Di passaggio, ci pare opportuno precisare che per la scienza moderna, capace di indagare l’intima struttura della materia sino a un livello impensabile ancora un secolo fa, non ha senso parlare di sostanza e di accidenti.

Se noi utilizziamo ancora tale distinzione, lo facciamo solo in senso gnoseologico, epistemologico, non certo chimico-fisico. “Pane” è semplicemente un iperonimo, ossia un termine comprensivo usato per indicare una certa gamma di prodotti alimentari a base di farina (mentre “farina” a sua volta è termine comprensivo per i prodotti della macinazione di determinate piante chiamate “cereali” …). È lo stesso caso di “fiore” usato per designare indistintamente la rosa, la viola, il tulipano, ecc.

Il concetto di ‘pane’ è quindi utile a scopo tassonomico, di classificazione; nel caso specifico si può a volte parlare addirittura di uso merceologico del termine: una legge può ad esempio stabilire i dati relativi al tipo di farina o al grado di umidità massimo di un prodotto perché si possa definirlo “pane” e commercializzarlo come tale.

 

 

Altre asserzioni dogmatiche

 

Un particolare problema legato alla dinamica della transustanziazione è costituito dal fatto che in ciascuna delle due specie sono presenti sia il corpo che il sangue di Cristo. Il Catechismo di san Pio X, nei numeri che vanno dal 324 al 327, contiene le seguenti affermazioni:

“L'ostia prima della consacrazione è pane.

Dopo la consacrazione l'ostia è il vero Corpo del Nostro Signor Gesù Cristo sotto le apparenze del pane.

Nel calice prima della consacrazione si contiene vino con alcune gocce d'acqua.

Nel calice dopo la consacrazione c'è il vero Sangue del Nostro Signor Gesù Cristo sotto le apparenze del vino.”

 

Corpo dunque l’ostia, e sangue il liquido contenuto nel calice, parrebbe di poter concludere. Senonché il n. 331 ci avverte che “sotto le apparenze del pane c'è tutto Gesù Cristo, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità; e così sotto quelle del vino”. Il che, chiaramente, è tutt’altra cosa.

Ecco come ce lo spiega lo Zoffoli, sulla base del criterio tomistico della “concomitanza”: “Gesù, istituendo l’Eucaristia, non offrì il corpo e il sangue di un ‘cadavere’, ma di un uomo ancora vivo …”. Di conseguenza, anche se in virtù della formula di consacrazione la sostanza del pane si converte “direttamente ed espressamente” solo nella sostanza del corpo, e in modo analogo la sostanza del vino si converte in quella del sangue, di fatto, “per naturale concomitanza con la sostanza del Corpo c’è anche la sostanza del Sangue e viceversa, perché si tratta di un Corpo attualmente vivo, non esangue; di un sangue vivo non separato dal suo Corpo” (n. 731).

 

Per la stessa ragione s’intende poi che “con la sostanza di tale ‘Corpo-vivo’ non può non esserci anche l’anima umana del Cristo quale suo principio vitale”. E come negare che “con la ‘natura umana’ completa del Cristo […] ci sia Egli stesso, ossia la Persona del Verbo”?

A questo punto non resta che compiere l’ultimo passo, proclamando che “col Verbo Incarnato non possono non esserci sia il Padre che lo Spirito Santo, essendo tutti l’identico Dio”.

 

Riunita così felicemente la Trinità al completo attorno a Gesù, resta da fare una precisazione importante: tutto il Cristo (corpo, sangue, anima e divinità, con quest’ultima in dimensione trinitaria) è presente in ogni singola parte, sia pur piccola quanto si vuole, del pane e del vino. Secondo lo Zoffoli, se ne avrebbe la prova nel fatto che “tutti gli Apostoli mangiarono delle porzioni dello stesso ‘pane spezzato’  e distribuito, e bevvero al medesimo calice da Lui offerto”.

È evidente che tale soluzione dottrinale ha lo scopo di assicurare la validità della consacrazione, e quindi della comunione, nei casi non infrequenti in cui si ha perdita di frammenti dell’ostia o di parte del vino. Ma ne deriva ad esempio la bizzarra conclusione che con una sola ostia si potrebbe distribuire la comunione a una moltitudine di fedeli.

 

Tutto ciò, naturalmente, senza contare il difficile problema costituito dalla presenza di qualcosa che non ha dimensioni (l’anima e la divinità di Cristo) in qualcosa che invece le ha, ossia il corpo del sacerdote e quelli dei fedeli che si comunicano. Questo però non è che un particolare aspetto di un problema più generale, quello del rapporto stesso tra l’anima e il corpo di ogni uomo, e pertanto non ci fermiamo qui a considerarlo.

 

 

Presenza reale ma non fisica?

 

Ci pare opportuno a questo punto chiarire l’equivoco, a cui già abbiamo accennato, implicito nelle affermazioni di chi sostiene che la presenza della carne e del sangue nelle specie eucaristiche è reale (quindi non puramente simbolica) ma non fisica.

Si tratta di una tesi insostenibile. Se infatti si afferma che sotto le apparenze del pane è presente la sostanza della carne, tale presenza può essere intesa solo in senso fisico: la sostanza di un’entità materiale, quale è la carne, è sempre fisica.

Noi non abbiamo la minima idea di quale possa essere lo statuto chimico-fisico di “sostanze spirituali” quali sono l’angelo, l’anima umana e Dio stesso; e neppure conosciamo quello del “corpo glorioso” (o corpo “pneumatico”, ovvero spirituale) che possiedono le anime beate. Ma non abbiamo dubbi sul fatto che ogni tipo di carne presente su questa terra ha una dimensione fisica.

 

Potremo dunque dire che nell’eucarestia la fisicità della carne non appare (le specie, ossia le ingannevoli apparenze, sono quelle del pane); ma se tale sostanza è presente, lo è in forma fisica: non può essere altrimenti. Per una sostanza materiale (ossia appartenente al mondo fisico), la realtà, ripetiamo, non può essere disgiunta dalla fisicità.

Questo, ancora una volta, per una pura questione di compatibilità logica: l’onnipotenza di Dio non può farvi nulla.

 

La negazione della fisicità poggia verosimilmente sulla presupposizione ingenua che quest’ultima riguardi solo la percezione sensibile immediata, ossia quel che si vede e si tocca. E s’intende che ha la funzione di togliere valore alle smentite che la tesi della presenza reale della carne e del sangue riceve dalle verifiche chimico-fisiche.

 

 

Corpo, carne, sangue

 

Un problema che praticamente non viene mai preso in considerazione è quello costituito dall’oggettiva inadeguatezza della coppia di termini “corpo e sangue” per indicare il Cristo nella completezza della sua realtà biologica. Si tratta, come sappiamo, dei precisi termini usati da Gesù nella formula istituente l’eucaristia e ora presenti nella definizione catechistica della transustanziazione.

In effetti, ognuno vede che nel concetto di corpo è già incluso quello di sangue: un corpo privo di sangue è inconcepibile, a meno che il sangue stesso non sia stato appositamente e integralmente sottratto al corpo, prima o dopo la morte.

 

Meno inadeguato parrebbe l’impiego della coppia “carne e sangue” (sono i termini che Gesù usa nel “discorso sul pane di vita” del quarto vangelo: “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue …”). Ma anche così non si elimina realmente l’incongruenza, poiché non è corretto considerare il sangue come confinato in vene ed arterie, ignorando quello che è presente nel tessuto muscolare, e quindi nella carne.

Per di più, “carne” fa di solito coppia con “ossa” – anziché con “sangue” - per indicare l’insieme del corpo; ce lo attesta lo stesso Gesù: “Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne ed ossa, come vedete che io ho” (Lc 24, 39). E sappiamo che sul Calvario i soldati rinunciarono a spezzargli le gambe, “affinché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso»”.          

Gesù dunque le ossa le aveva. Dobbiamo pensare che siano presenti anche nell’ostia? Si dovrebbe rispondere di sì, in quanto vanno considerate parte integrante e ineliminabile del corpo; ma allora non si comprende perché tale considerazione non debba valere anche per il sangue, che dovrebbe pertanto essere superfluo menzionare accanto al corpo – e quindi in aggiunta ad esso - per indicare l’individuo umano nella sua integrità fisica.

 

Ennesima riprova dell’imprecisione del linguaggio teologico usato nella dottrina eucaristica. E l’imprecisione, come già abbiamo ricordato, risale a Gesù stesso, che parla sempre del suo corpo o della sua carne (da mangiare), nonché del suo sangue (da bere).

 

 

Che significa “sotto le apparenze”?

 

In tutti i discorsi direttamente o indirettamente riguardanti la transustanziazione, si usano le espressioni “sotto le specie”, “sotto le apparenze”, o altre simili in cui compare la preposizione “sotto”. Ciò è normale, poiché la metafora soggiacente a tali espressioni è quella di un travestimento (cfr. “sotto le vesti di …”) che “copre” l’aspetto originario di qualcosa o qualcuno.

Questo fa sì che di tanto in tanto faccia capolino, nelle argomentazioni apologetiche, l’idea di un corpo e un sangue di Cristo che, in quanto celantisi sotto le specie eucaristiche, si troverebbero per così dire all’interno dell’ostia e del calice, come se le apparenze riguardassero solo la superficie del pane e del vino.

Non è neppure il caso di dire che tale ingenua rappresentazione è completamente fuorviante.

 

 

Conclusione

 

Quanto abbiamo detto ci pare basti a dare un’idea  della complessità della problematica riguardante la transustanziazione, della fragilità dell’impianto dottrinale relativo e delle acrobazie a cui è costretta l’apologetica quando deve affrontare simili questioni.

 

Abbiamo visto che il Catechismo della Chiesa cattolica non entra nel merito di tale problematica, evitando così di impegolarsi in questioni delicatissime e imbarazzanti.

È comunque un dato di fatto che la precisa definizione dello statuto ontologico delle specie eucaristiche non è ormai più materia di appassionata contesa dialettica come nei secoli passati. Tanto che gli ortodossi, ad esempio, arrivano a giudicare negativamente quello che considerano un accanimento speculativo, vòlto a sviscerare un mistero che andrebbe invece salvaguardato nella sua ineffabile trascendenza.

 

A questo proposito ci pare utile riportare un giudizio del già citato J.-H. Nicolas, teologo rigoroso e di ineccepibile ortodossia:

“La teoria della transustanziazione, per spiegare la presenza reale di Cristo nell’eucaristia, utilizza ragionamenti metafisici, che sono di estrema difficoltà e sembrano sbarrare la strada al mistero, più che aiutare a comprenderlo; inoltre fanno appello a una filosofia che ripugna allo spirito moderno di coloro a cui deve essere presentato il mistero dell’eucaristia, e degli stessi teologi che devono presentarlo e rifletterci sopra: la filosofia dell’essere.

Ne risulta, nella teologia moderna, specialmente ecumenica, una tendenza molto forte ad aggirare questa difficoltà, sforzandosi di arrivare al mistero che noi crediamo, “la presenza reale”, lasciando da parte la transustanziazione, troppo difficile, si pensa, per aiutare oggi l’intellectus fidei” (“Sintesi dogmatica”, vol. II, p. 400; corsivi nostri).

 

Tutto vero. Ma sarebbe forse il caso di dire anche che il fastidio ormai diffuso per questo settore della speculazione teologica deriva, prima ancora che dall’attuale impopolarità della “filosofia dell’essere”, dalla crescente consapevolezza che nella compagine della dogmatica eucaristica si celano numerose insanabili aporie.

Noi abbiamo cercato di metterne in evidenza alcune, cercando di districarci nel groviglio di problemi originato dall’assunto della presenza reale attuantesi mediante la transustanziazione. Nei prossimi capitoli ne vedremo numerose altre, di più immediata evidenza e di trattazione un po’ meno ostica per il comune lettore. 

 

 

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