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Postilla sulle profezie trinitarie
Per eliminare ogni eventuale perplessità circa la completa assenza, nell’AT, di “profezie” - o altre allusioni di qualsiasi genere - relative all’esistenza di un Figlio di Dio (premessa indispensabile per l’affermarsi dell’idea trinitaria) e alla sua futura incarnazione, esaminiamo meticolosamente il gruppo di passi veterotestamentari indicati a questo scopo da Antonio Socci, che nel suo “Indagine su Gesù” elenca oltre centocinquanta pretese “profezie messianiche”. Chi si sentisse scoraggiato dalla minuziosità dell’indagine, senza peraltro nutrire diffidenza nei confronti della tesi da noi sostenuta, può naturalmente tralasciare la lettura della “Postilla”, destinata in primo luogo agli scettici. Per quanto riguarda l’esegesi, allo scopo di prevenire ogni accusa di parzialità ci siamo affidati principalmente alle note della Bibbia CEI e alle opinioni di figure di spicco dell’apologetica, quali Gianfranco Ravasi (ora cardinale, nonché impegnato nell’iniziativa di rievangelizzazione denominata “Cortile dei gentili”) e Alonso Schökel, già prestigioso docente presso il Pontificio Istituto Biblico. Di quest’ultimo abbiamo utilizzato il ponderoso studio intitolato “I profeti”; di Ravasi, un libro dedicato espressamente al nostro tema: “L’attesa del Salvatore nell’Antico Testamento”, che raccoglie un ciclo di conferenze tenute a Milano negli anni Novanta. I corsivi sono di regola nostri. Ecco dunque l’elenco delle presunte profezie e dei passi scritturali allegati da Socci a loro sostegno:
1) “Dio ha un Figlio.” Come appoggio si cita Prov 30, 4, che recita così: “Chi è salito al cielo e ne è sceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso le acque nel suo mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra? Come si chiama? Qual è il nome di suo figlio, se lo sai?” Come si vede, si tratta di un testo che eufemisticamente si può definire “strano”. Il libro dei Proverbi, redatto nel corso di cinque o sei secoli, è una raccolta di massime di valore molto diseguale. In particolare, nei capitoli conclusivi 30 e 31, ci avverte la nota CEI, “confluisce altro materiale proveniente dal patrimonio della letteratura sapienziale dei popoli del Vicino Oriente antico, come sembrano indicare i nomi dei personaggi sulle cui labbra sono poste queste massime (Agur, figlio di Iaké, da Massa e Lemuèl, re di Massa)”. E di Agur si dice che “è un personaggio sconosciuto”, con la precisazione che “Massa è il nome di una tribù dell’Arabia settentrionale”, pur se “alcuni intendono la parola ebraica Massa non come nome di tribù, ma nel senso di ‘oracolo’ (o anche ‘carico’, ‘peso’)”. Tutto vago, dunque, tutto incerto e nebuloso; l’unica cosa sicura è che questo simpaticone di Agur non è un ebreo: ottima credenziale, veramente, per chi dovrebbe essere il portatore del messaggio profetico più importante in vista della preparazione della Nuova alleanza, nel progetto di Storia della salvezza: Dio ha un Figlio. E nei versetti precedenti Agur ha detto: “Io sono il più stupido degli uomini e non ho intelligenza umana, non ho imparato la sapienza e la scienza del Santo non l’ho conosciuta”. È per questo che si pone le strampalate domande che abbiamo visto nel v. 4. Tra le quali figura anche quella circa il nome (si badi!) del figlio di “chi ha fissato tutti i confini della terra”. È legittima l’impressione che il buon Agur avrebbe anche potuto chiedere il nome della nonna - o magari del nipotino - di questo signore. Aggiungeremo, per completare il quadro, che tra i proverbi di questo capitolo 30 ne figurano alcuni cosiddetti “numerici”, tra cui uno piuttosto noto: “Tre cose mi sono difficili, anzi quattro, che io non comprendo: il sentiero dell’aquila nell’aria, il sentiero del serpente sulla roccia, il sentiero della nave in alto mare, il sentiero dell’uomo in una giovane”. Altrettanto abissale profondità troviamo ad esempio nei due versetti conclusivi: “Se stoltamente ti sei esaltato e se poi hai riflettuto, mettiti una mano sulla bocca, poiché sbattendo il latte ne esce la panna, premendo il naso ne esce il sangue e spremendo la collera ne esce la lite”. Con questo crediamo di aver dato un’idea del livello teologico e dell’aura sacrale propri del contesto a cui appartiene il versetto che secondo Antonio Socci va più di ogni altro considerato quale appoggio scritturale della sconvolgente rivendicazione avanzata da Gesù e fondante il cristianesimo: Dio ha un figlio, che è Dio al pari del padre. Potremmo dire che in tutto ciò vi è qualcosa di farsesco. Ma occorre aggiungere una cosa importantissima: la Bibbia CEI, sia nelle note apposte all’edizione del 1974 sia in quelle dell’edizione 2008 non fa neppure parola del supposto carattere di preannunzio trinitario del v. 4: se lo sono lasciati scappare! Ovvero diremo che anche tra gli apologeti vi è ancora chi non ha smarrito del tutto il buon senso. Socci provveda a fare le sue rimostranze ai redattori dell’opera. Ad abundantiam, diremo che il passo in questione non figura neppure tra quelli presi in considerazione da Ravasi. Il quale poi, in un’altra opera, dedicata al libro dei Proverbi, pur soffermandosi sui capitoli 30 e 31 ignora completamente quel v. 4 che dovrebbe contenere il fatidico annuncio. Crediamo che non occorra aggiungere altro.
2) “Il Messia è il Figlio di Dio.” Qui i passi scritturali indicati sono tre: Sal 2,7, 2Sm 7,14 e 1Cr 17,14. Sal 2,7 dice: Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato”. E prosegue dicendo: “Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane” (v. 8). Una nota della Bibbia CEI del 2008 precisa: “Sorto originariamente per l’intronizzazione del re, questo salmo regale esprime la certezza che il Signore sosterrà sempre il suo consacrato, nonostante i mutamenti e le alterne vicende della storia.” La stessa cosa dice Alonso Schökel: “A parlare è il re, come se srotolasse il protocollo reale della sua elezione o come se lo recitasse a memoria”. E ricorda che H. Frankfort cita paralleli orientali. Ad esempio, “nel contesto della investitura della regina Hatseput, il dio Amon-Ra dice: ‘Tu sei la mia figlia amata, io sono il tuo padre amato. Stabilisco la tua sovranità sulle due terre e ti scrivo il protocollo’.” E “per Tutmosis III, successore della precedente regina, così parla sempre il dio Amon-Ra: ‘Io sono tuo padre, come Dio ti ho generato, perché tu sieda sul mio trono come re dell’alto e basso Egitto’.” Shökel commenta: “In Israele la filiazione divina avviene in una fase adulta della vita del re, ‘oggi’. Non è un fatto biologico, ma un atto giuridico. Il termine migliore per designare questa filiazione è quello di “adozione”. Chiarissimo, dunque: il salmo non contiene la minima allusione al Figlio trinitario, benché anche questi sia “non creato”, bensì “generato” (generato non “oggi”, però, ma ab aeterno). Anche Ravasi, del resto, non ha esitazioni ad ammettere che “il re è solo manifestazione della presenza di Dio attraverso un’adozione divina, egli rappresenta la vita di Dio che fluisce attraverso la storia”. Senonché, aggiunge, “quando il re non c’è più, il protocollo regale assume un altro significato: si aspetta un sovrano che sia figlio di Dio nel modo più trasparente possibile, nella giustizia”. Dal che consegue che, se si applica quello che egli chiama il “principio della retroproiezione”, allora “la fede cristiana, che ritiene Gesù di Nazaret Figlio di Dio in senso stretto, fa sì che il v. 7 del Sal 2 diventi nel Nuovo Testamento una dichiarazione reale della figliolanza divina di Gesù”. Il che è quanto ci conferma la succitata nota dalla Bibbia CEI, la quale, dopo aver chiaramente presentato l’intronizzazione di un re mortale come origine del salmo, aggiunge: “Tutto ciò in Israele si rendeva visibile nella dinastia davidica, depositaria delle promesse e delle benedizioni messianiche (...). Questo spiega la lettura messianica del Sal 2 e la sua applicazione (...) a Gesù, Figlio di Dio e messia.” Tutto chiaro, dunque: l’identificazione del “figlio generato” con il Figlio di Dio viene compiuta in ambito cristiano, da parte cioè di chi ritiene che Gesù sia figlio del Padre; è estranea al significato originario del salmo. In altri termini: il movimento non è dal salmo alla realtà divina di Gesù, ma, al contrario, dalla fede nella divina figliolanza di quest’ultimo all’interpretazione dei versetti in questione. Il che, per quanto ci riguarda, significa che chi si rifiutava di credere alle parole del sedicente figlio di Dio aveva tutte le ragioni per farlo: la “rilettura”, o “retroproiezione”, o “retrospezione” (ovvero lettura “pasquale”; tutti questi termini, che la tassonomia di Ravasi vorrebbe tenere distinti, indicano sostanzialmente lo stesso procedimento ermeneutico) risulta attendibile solo se si accetta la pretesa di Gesù di essere il Verbo incarnato. Ma, anche ammesso - e non concesso - che tale pretesa sia corroborata dall’evento pasquale, era in ogni caso assurdo pretenderne l’accettazione prima della Pasqua. Di qui un corollario: era non solo pienamente legittimo, ma addirittura ovvio, che i giudei che misero a morte Gesù leggessero in Sal 2,7 nient’altro che l’intronizzazione di un uomo. Che poi, nel corso dei secoli, la scomparsa della monarchia e l’aspirazione ad una superiore giustizia abbiano portato a vedere nel re cantato nei salmi regali un futuro inviato di Dio - destinato appunto a ristabilire una volta per tutte l’ordine, la giustizia e la pace - legittima la lettura messianica del versetto; ma non legittima affatto la lettura cristiana, che pretende di vedere in tale inviato Dio stesso. La mistificazione apologetica appare evidente se torniamo a considerare la nota della CEI: “Questo spiega la lettura messianica del Sal 2 e la sua applicazione (...) a Gesù, Figlio di Dio e messia.” Abilmente, ma fraudolentemente, si presentano come coincidenti, quasi si trattasse di entità sinonimiche, la “lettura messianica” e “la sua applicazione a Gesù, “Figlio di Dio” e messia”. È del tutto arbitrario affiancare surrettiziamente alla qualifica di “messia” quella di “Figlio di Dio”. L’indebito passaggio semantico è di fatto dichiarato nell’affermazione sopra riportata di Ravasi: “la fede cristiana, che ritiene Gesù di Nazaret Figlio di Dio in senso stretto, fa sì che il v. 7 del Sal 2 diventi nel Nuovo Testamento una dichiarazione reale della figliolanza divina di Gesù”. Ecco, dunque: è solo nel Nuovo Testamento che il re del salmo regale diviene Figlio di Dio. Nel Vecchio Testamento pertanto non lo è. E i giudei che disputavano con Gesù e che alla fine lo misero in croce avevano non solo il diritto, ma addirittura il dovere di attenersi al codice veterotestamentario. Questa minuziosa analisi dei problemi ermeneutici relativi a Sal 2,7 ci consentirà di procedere più speditamente nell’esame degli altri passi “messianici”. La dinamica interpretativa, sottilmente fuorviante, è infatti per lo più la stessa. 2Sam 7,14 La Bibbia CEI 2008 lo presenta così: "2Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. 13Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre. 14 Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. Se farà il male, lo colpirò con verga d'uomo e con percosse di figli d'uomo, 15ma non ritirerò da lui il mio amore, come l'ho ritirato da Saul, che ho rimosso di fronte a te. 16La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te, il tuo trono sarà reso stabile per sempre"". Crediamo non occorrano molti delucidazioni per capire che il personaggio in questione non può assolutamente essere il Verbo generato ab aeterno: si prende addirittura in considerazione l’idea che egli possa fare il male e si promette una correzione mediante randellate! Ad ogni buon conto, alleghiamo la nota oltremodo esplicita della citata Bibbia: “Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio: con questa metafora si indica la strettissima relazione che si costituisce tra Dio e il re al momento dell’ascesa al trono (cfr. Sal 2,7; cfr. Sal 89, 27)”. 1Cr 17,14 Riproduce con minime varianti di forma (tra l’altro Saul viene indicato come “il tuo predecessore”) il testo appena visto di Sam 7, 14.
3) “Il Messia dichiarerà di essere figlio di Dio.” Qui i passi citati sono tre: Sal 2, 7, già ampiamente esaminato, e due brani del quarto vangelo: Gv 5, 18 e Gv 9, 35-37. Anche su questi ovviamente non ci fermiamo in quanto appartengono al NT; non costituiscono la profezia: vorrebbero, nel disegno dell’autore, indicarne il compimento.
4) “Il Messia sarà uomo ma si rivelerà come Dio.” Accanto a un passo del quarto vangelo (Gv 10, 33) che non interessa la nostra ricerca, viene allegato Ger 23,5-6, che la Bibbia CEI 2008 traduce così: “"Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore - nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. 6 Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: "Signore-nostra-giustizia".” A parte ogni altra considerazione, è evidente che, se il personaggio a cui si allude verrà “suscitato” in un imprecisato futuro, non può in alcun modo essere un “Figlio” eterno del Padre.
5) “Il Messia avrà un aspetto umano ma avrà origine divina.” Vengono allegati due passi di Marco: 8,31 e 49,1-8, per noi irrilevanti. Tra parentesi, notiamo che il secondo contiene l’episodio della Trasfigurazione, nel quale in effetti abbiamo la sola proclamazione della divina fgliolanza di Gesù non fatta dall’interessato; e a farla è addirittura Dio stesso. Senonché sarebbe umoristico pretendere che i giudei dovessero tener conto di questo avallo ufficiale concesso alle pretese del Nazareno, se si considera che tutto l’evento si svolse nella più assoluta solitudine, presenti solo i tre più fidati discepoli. Accanto ai passi di Marco, Socci ne cita però uno famosissimo dell’AT: Dan 7, 13-14, il passo in cui fa la sua comparsa la misteriosa figura del “Figlio dell’uomo”. Eccolo nella traduzione CEI 2008: "13Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d'uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. 14Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.” “L’edizione CEI 1974 si limitava a questa scarna nota: “13. Colui che ha forma umana è il Messia ( cfr. Mt 24, 30. cfr. Mt 26, 64), forse come capo e modello del popolo messianico: v. 18. cfr. At 9, 13.” Quella del 2008 chiosa così: “Nella visione il popolo fedele a Dio [sic] è rappresentato dalla figura misteriosa di uno simile a un figlio d'uomo (v. 13). Nei vangeli l'espressione Figlio dell'uomo indica Gesù stesso” (corsivi nel testo). Questo potrebbe bastare ad assicurarci che i contemporanei di Gesù erano pienamente legittimati a vedere nel personaggio nient’altro che un uomo inviato da Dio: figura messianica dunque, non Dio figlio di Dio. Vogliamo comunque riportare l’opinione di Schoekel, che nell’introduzione ai testi di Daniele scrive: “Prescindendo dal senso originale del testo11, gli autori cristiani vi hanno visto la venuta gloriosa di Gesù” (p. 1409). E nella nota 11 precisa: “La “figura umana” che appare sulle nubi del cielo (il “Figlio dell’uomo”) è uno dei personaggi più controversi della scienza biblica. Lo si è identificato con un essere celeste, con lo stesso Daniele, con Giuda Maccabeo ... In realtà, l’autore (o l’interpretazione posteriore) lo identifica con “i santi dell’Altissimo” (7, 18) o con “il popolo dei santi dell’Altissimo” (7,27). Il significato originale è dunque collettivo”. Anche nella traduzione egli usa l’espressione “una figura umana”, e nel commento al versetto 13 scrive: “Ciò che prima appariva era ‘come un leone, come un orso, come un leopardo’. Ciò che appare adesso è ‘come un uomo’, cioè una figura umana. Il testo, grammaticalmente, non dice di più.” E a proposito dei vv. 8-13 aggiunge:”Ciò che Daniele vede è un individuo di razza umana, opposto alle quattro bestie. Non vede un personaggio determinato, dotato di un titolo misterioso, né un personaggio celeste”. Ci sembra che questo basti a fugare ogni dubbio. Vale comunque la pena di esaminare un argomento addotto da Antonio Socci; lo facciamo soprattutto allo scopo di mostrare in quali arrampicate sugli specchi si impegnano gli apologeti più zelanti. Socci ricorre all’autorità di Paolo Sacchi, secondo il quale, scrive, “c’è un testo che ci rivela esattamente [sic] come gli ebrei del tempo di Gesù interpretavano la figura del ‘figlio dell’uomo’ di Daniele e cosa intendeva dire Gesù attribuendosi quella stessa espressione”. Il testo in questione è il Libro delle parabole, che, scrive Sacchi, “è datato con sicurezza a circa l’anno 30 a. C.” e nel quale “appare una figura chiamata Figlio dell’uomo che ha le seguenti caratteristiche: è una persona, non una collettività; ha natura superumana, perché è creato prima del tempo e vive tuttora, conosce tutti i segreti della Legge e perciò ha il compito di celebrare i Grande Giudizio alla fine dei tempi.” E conclude: “Questa figura dotata delle funzioni di giudice esatologico doveva essere ben nota alla gente perché nessuno domanda mai a Gesù che cosa mai sia questo Figlio dell’uomo”. Al che abbiamo parecchio da obiettare: 1) Innanzitutto vi è una questione di metodo: il fatto che il Libro delle parabole, sezione di quello di Enoch, sia stato scritto qualche decennio prima di Cristo non autorizza affatto a concludere che fosse conosciuto dalle masse e che nutrisse - esso solo - la communis opinio dei giudei contemporanei di Gesù. In particolare, perché mai l’establishment religioso, “l’aristocrazia del tempio” che mise a morte il Nazareno, avrebbe dovuto tenere in considerazione un testo che non è entrato in alcun canone, né giudaico né cristiano (con la sola eccezione di quello copto), mentre rifiutava di accettare i libri poi accolti dalla Chiesa come deuterocanonici? In altri termini: il Libro delle parabole non fa parte della Bibbia, sicchè utilizzarlo nell’esegesi è come fare cristologia utilizzando i vangeli apocrifi (i quali pure, senza ombra di dubbio, riflettono molto del comune sentire del tempo). Lo stesso Gesù, quando vuole presentarsi come preannunziato da secoli, si richiama - sia pure mistificatoriamente, come abbiamo visto - a “tutte le Scritture” (cfr. Lc 24, 27 e 44-45). Noi, ad ogni buon conto, ci limitiamo a porre a confronto il giudaismo e il cristianesimo che figurano nelle due sezioni della Bibbia cattolica. 2) Molto più importante è comunque un’altra considerazione, che ci pare tagli la testa al toro. Nei vangeli Gesù, parlando di sé, usa l’espressione “Figlio dell’uomo” un centinaio di volte, e spesso di fronte ad un pubblico più o meno vasto. Orbene, non risulta che alcuno mai abbia avuto da obiettare a questa sua rivendicazione; mentre è stata ripetutamente, coralmente e veementemente contestata la sua pretesa di “farsi Dio”. Il che dimostra che per “Figlio dell’uomo” i giudei non intendevano affatto una figura divina: in ogni caso, né Dio né un suo Figlio, Dio al pari del Padre. Per loro il “Figlio dell’uomo” e il Figlio del Dio trinitario (o comunque “binitario”) erano due entità diversissime. La forza di tale argomentazione sta nel fatto che essa non ricorre a più o meno arrischiate congetture storico-filologiche, ma utillizza solo i dati forniti dai vangeli. La Bibbia spiegata con la Bibbia, insomma, come ci viene sempre raccomandato. Analogamente, è impossibile non chiedersi come mai Gesù stesso non abbia chiarito il senso dell’espressione e le ragioni della sua scelta. E, a fortiori, il discorso vale per la profezia di Daniele delle “settanta settimane”, a cui Socci dedica addirittura una trentina di pagine. Perché mai il Salvatore, mentre affermava la conformità della propria missione alla Scritttura (come fece ad esempio nella sinagoga di Nazaret), non richiamava i passi scritturali che a detta di certi apologeti del giorno d’oggi costituiscono la più lampante conferma delle sue autoproclamazioni? È questa un’altra delle sciagurate implicazioni del meraviglioso progetto del Deus absconditus? Misteri della fede. Per concludere circa il passo di Daniele, ricordiamo ancora che nel testo del profeta si incontra l’espressione “figlio d’uomo” (così anche nei Settanta: huiòs anthrópou) anziché “figlio dell’Uomo” che compare sempre nei vangeli (huiòs toû anthrópou). Non occorre spendere molte parole per dimostrare che si tratta di due formule assai diverse: la prima ha un carattere di precisazione zoologica che la seconda non ha. Ma non intediamo addentrarci in una questione che ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema.
6) “Sarà Dio stesso venuto in soccorso agli uomini e abiterà fra loro”. Qui Socci allega, oltre a Sal 46, 6-12, quattro presunte profezie di Isaia, che esaminiamo nell’ordine. Is 7,14: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele.” (CEI 2008) L’edizione CEI del 1974 non ritiene di dedicare neppure una parola di commento a questo versetto. A proposito del v. 15 fornisce le seguenti indicazioni: “L'Emmanuele è, nello stesso tempo, un segno di salvezza e un segno di castigo per Giuda infedele e per i nemici del popolo di Dio. La panna e il miele erano nutrimento dei nomadi in un paese impoverito (v. 22 ss.). La scelta del bene e del male indica l'età della ragione (cfr. Dt 1, 39)”. Neppure il minimo accenno, dunque, a una divina figliolanza. Nell’edizione 2008 compare invece un’ampia nota, la quale ci informa che “all’origine queste parole profetiche dovettero essere intese come promessa di un immediato discendente di Davide, cioè di un figlio di Acaz, quale risposta del Signore alle trame della Siria e di Èfraim. Ma la solennità dell’oracolo e la grandezza del nome dato al bambino, Emmanuele “Dio-con-noi”, fecero sì che queste parole non perdessero il loro carico di speranza dopo la morte del re Ezechia”. Siamo in sostanza ricondotti alla situazione vista esaminando altri passi, e soprattutto Sal 2,7: l’attesa che si protrae è attesa di un più lontano discendente di Davide, destinato a ricoprire un ruolo in senso lato messianico, senza la minima allusione all’esistenza e all’incarnazione di un figlio di Dio. Irrilevanti per il nostro discorso sono poi i ragguagli forniti dalla nota circa la traduzione di almah con parthénos da parte dei Settanta e l’utilizzazione del versetto da parte di Matteo come profezia del concepimento verginale di Maria. Per pura curiosità, segnaliamo che a proposito della panna e del miele la nuova edizione ha cambiato idea: “7,15 panna e miele: simbolo ambiguo. Da una parte sembra alludere a una situazione di benessere, dall’altra rimanda alla vita nomade e quindi alla precarietà.” Meraviglioso esempio della perspicuità delle profezie bibliche: o una certa cosa o il suo contrario. Is 9, 5-6 Nella versione CEI 2008: “Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. 6Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre. Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.” Bene: sarà interessante sapere che la Bibbia dei vescovi italiani, sia in questa edizione che nella precedente del 1974, non dedica neanche una parola di commento a questo passo. Evidentemente i devoti redattori non sono neppure stati sfiorati dall’idea che esso contenesse un’allusione nientemeno che ... a Dio, come pare invece tanto chiaro ad Antonio Socci. Is 40, 3: “Una voce grida: "Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio". Così l’edizione CEI del ’74, che appone la seguente nota: “3. E' la voce dell'araldo che prepara il ritorno trionfale del popolo come in un nuovo esodo. Il testo qualifica nei vangeli la missione di Giovanni Battista: cfr. Mt 3, 3. cfr. Mc 1, 3. cfr. Lc 3, 4-6.” La nuova edizione si limita a sostituire “appianate” con “spianate”, dandoci l’ulteriore ragguaglio che “si tratta probabilmente di una voce celeste”. Anche qui, dunque, alzi la mano chi scorge nel passo quel che pensa di vedervi Socci, e che avrebbe dovuto indurrre i giudei a riconoscere in Gesù il Figlio di Dio! Is 63, 8-9 Nell’ultima versione CEI: Voglio ricordare i benefici del Signore, le glorie del Signore, quanto egli ha fatto per noi. Egli è grande in bontà per la casa d'Israele. Egli ci trattò secondo la sua misericordia, secondo la grandezza della sua grazia.“Disse: "Certo, essi sono il mio popolo, figli che non deluderanno", e fu per loro un salvatore 9in tutte le loro tribolazioni. Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati; con amore e compassione li ha riscattati, li ha sollevati e portati su di sé, tutti i giorni del passato. 10Ma essi si ribellarono e contristarono il suo santo spirito. Egli perciò divenne loro nemico e mosse loro guerra.” Qui il discorso sarà telegrafico: la Bibbia CEI del ’74 non dedica ai nostri due versetti neppure una sillaba, e la stesso fa quella del 2008. Del resto, appare chiaro che non si parla di alcuna figura - divina o anche semplicemente messianica - che fiancheggi Yahweh nel suo agire. Per di più, tutto si riferisce chiaramente ad eventi passati anziché futuri, come conferma inequivocabilmente il v. 10. Sal 46, 8-9 Ecco il passo nella versione CEI 2008: “Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare. Dio la soccorre allo spuntare dell'alba. 7 Fremettero le genti, vacillarono i regni; egli tuonò: si sgretolò la terra. 8 Il Signore degli eserciti è con noi, nostro baluardo è il Dio di Giacobbe. 9 Venite, vedete le opere del Signore, egli ha fatto cose tremende sulla terra. 10 Farà cessare le guerre sino ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà nel fuoco gli scudi. 11 Fermatevi! Sappiate che io sono Dio, eccelso tra le genti, eccelso sulla terra. 12 Il Signore degli eserciti è con noi, nostro baluardo è il Dio di Giacobbe.” Qui sarà sufficiente riportare per esteso le note apposte rispettivamente al nostro passo e all’intero salmo dalle due edizioni della Bibbia Cei. 1974: 5. Fiume e ruscelli simboleggiano le benedizioni divine su Gerusalemme e sul tempio. 10. La pace universale è un altro tema messianico fondamentale 2008: 46 - Il salmo sembra evocare la vittoria insperata d’Israele sull’esercito del re assiro Sennàcherib che, nel 701, aveva cinto d’assedio Gerusalemme (cfr. 2Re 18, 13-19, 37; cfr. Is 36, 1-37, 38). È il primo dei cosiddetti “canti di Sion”, cioè di quei salmi che celebrano la città santa come dimora di Dio e luogo ideale, dove pulsa il cuore della fede d’Israele (gli altri sono cfr. Sal 48; cfr. Sal 76; cfr. Sal 84; cfr. Sal 87; cfr. Sal 122 e per alcuni anche cfr. Sal 137). Altro i vescovi italiani non han proprio trovato da dire su questo testo. Ancora una volta ci attendiamo, da parte di Socci e degli apologeti che condividono le sue tesi, un intervento presso la conferenza episcopale affinché si provveda a riparare a tanto clamorose distrazioni. _________________ ______________________ __________________ Al termine della disamina, ci pare di poter tranquillamente concludere che nell’AT non figura neppure la più vaga allusione all’esistenza di un Figlio eterno di Dio quale è il Logos giovanneo, esistente fin dal “principio” presso il Padre. Tanto meno, ovviamente, è il caso di parlare di preannunzi dell’Incarnazione. Con questo riteniamo di aver dimostrato quanto detto in precedenza, ossia che: 1) Gesù, vero Dio e vero uomo, è completamente assente nell’AT; 2) le sue solenni proclamazioni circa presunte numerose allusioni a lui e alla sua missione reperibili nelle Scritture sono, si perdoni la crudezza del termine, pure e semplici millanterie; 3) i giudei del suo tempo, e in particolare i capi religiosi, erano nel giusto quando giudicavano orribilmente blasfema la sua pretesa di essere Figlio del Padre onnipotente creatore del cielo e della terra. Di qui la piena legittimità - e, si vorrebbe dire, la meritorietà - della sua messa a morte, ossia di quello che abbiamo definito il “regolamento di conti” consumatosi sul Calvario. |
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